di Antonio Strinna
Forse non tutti sanno che praticare la lingua sarda, sia orale che scritta, costituisce di per sé un’occasione per avvicinarsi alla poesia, e della poesia sentire il ritmo, la vitalità, il suo viaggio nel tempo.
E non di meno significa entrare nel suo patrimonio di tradizioni e storie, metafore e sentimenti, oltre che di suoni, metriche e rime.
Proprio per questo la poesia sarda è stata sempre considerata come canzone.
Insomma, passare dalla lingua alla poesia e da questa alla canzone il passo è breve, si tratta di vasi comunicanti. Si aggiunga poi che la canzone sarda non è mai stata fine a se stessa, ha sempre avuto una missione da compiere, un traguardo da raggiungere.
Lo scrittore Francesco Masala, a riguardo dell’opera di Peppino Mereu, dice che di una poesia non conta tanto il valore letterario quanto invece l’uso che ne fa la sua comunità.
La canzone “Nanneddu meu”, scritta con una forma metrica che risale all’antica Grecia, il ditirambo, è proprio l’espressione – dolente e drammatica – della condizione in cui viveva la comunità di Tonara all’inizio del 1800.
Il suo ritmo martellante, affidato a unu dillu, un canto a misura di ballo, appare come l’unica ribellione capace di contrastare una rassegnazione che allora colpiva anche il poeta.
Come Francesco Masala, anche i galluresi dicevano una volta che la canzone serve per opporsi alla morte e all’oblio, serve cioè a raccontare storie e fatti anche minimi che nessun libro tramanderebbe ai posteri.
Perciò “chistu tocca ponillu in musica“, così affermavano quando accadeva qualcosa che li toccava profondamente.
“Nipote mio, l’affido a te questa valle di mulini morenti. Tutto quanto è stato e non sarà più affido a te” questo mi disse mio nonno quando ero ancora un ragazzo.
“Arduo compito è il tuo, fare in modo che gli uomini, così volubili e distratti, non l’allontanino per sempre, almeno non dalla memoria. Chissà, forse la poesia ci potrebbe ancora salvare!”concluse il nonno guardandomi come se cercasse una speranza. O piuttosto, la poesia, la canzone?
Qualche anno dopo la sua morte, nel mese di Agosto del 1972, quando mancavano pochi giorni alla festa di san Lorenzo, ecco venire alla luce la canzone che il nonno mi aveva sollecitato, “Badde Lontana”.
Per la verità, il primo artefice di questa creatura non sono stato io, ma una madre che a San Lorenzo aveva perso un figlio di appena 10 mesi.
Era accaduto il 20 marzo 1957: un masso si era staccato dalla collina e aveva sfondava il tetto e il solaio del suo mulino, cadendo poi nella culla dove dormiva il suo figlioletto.
Quindici anni dopo, durante una notte d’inizio agosto, feci un sogno decisamente insolito. Mi ritrovavo alla festa di San Lorenzo.
Prima ancora che iniziasse la serata musicale: mi sono messo a cercare in mezzo alla folla i volti dei genitori del bambino, specialmente quello della madre. Non c’erano.
Alla fine, la mia immaginazione è riuscita nel suo intento. Così rivedevo la madre, circondata dall’allegria della festa, che tentava di dimenticare che quella stessa valle le aveva ucciso il figlioletto.
Dunque, la donna sapeva bene che già da molto tempo io la stavo cercando, specialmente dentro di me. Ecco perché, nel sogno, a un certo punto, lei mi si avvicina e inizia a parlarmi.
Ma proprio mentre mi parla, forse a causa dell’emozione, mi risveglio. Sono le sei del mattino.
Prendo allora carta e penna e, seduto sulla sponda del letto, sono già pronto a scrivere, ad ascoltare le parole della donna, pronunciate nella sua lingua materna, il sardo, l’unica capace di riportarla nella valle.
E’ proprio alla valle lei si rivolge. Io non sono che il suo tramite, naturale, devo solo ascoltarla.
E’ vero, si trova sotto il pezzetto di cielo – così lei immagina – dove Dio ha accolto la sua creatura. Ma non è forse il momento più tormentato, il meno adatto per tornarci, mentre anche il pensiero già piange nella solitudine e nel silenzio?
“Me l’hai ucciso senza pietà con una roccia rubata a Dio e ora come faccio a perdonarti?” Dalle sue parole e dal suo sguardo capisco che il suo desiderio di perdono, nel ricordo della morte del figlio, è ancora profondo e forte.
Desiderio di perdono, perché con il perdono torni anche la pace. C’è la festa e la poesia, in questa notte di luce, che porta il mistero nel cuore, festa e poesia per le strade e in ogni casa.
Certo ci sono anche la preghiera e il canto, ma non bastano. Il suo cuore non vuole proprio ascoltare.
San Lorenzo, segnato dal fuoco e dalla graticola, come poteva non capire questa donna? Una madre che stava vivendo, da anni, con la guerra dentro, in ogni istante della sua esistenza.
Io credo che il santo, alla fine, abbia ascoltato la sua docile attesa, che l’abbia presa per mano e insegnato a sperare, ancora una volta.
Come avrete notato, l’impronta del sogno appare evidente fin dalle prime parole. Sutta su chelu de fizu meu. Sotto il cielo dove ora sta mio figlio.
Misteriosamente, il sogno è il ponte che collega il cielo e la terra, il dolore e la festa, il figlio e la madre. Che poi è il sogno di colui che solo per presunzione può chiamarsi autore.
Certo molto di più conta la narrazione di un conflitto drammatico quanto umano, quello della vita con la morte, della fede con la disperazione, dell’allegria della festa con il dolore di un lutto incancellabile.
I suoni costituiscono nella canzone, come le parole, espressione di una vita che continua, malgrado tutto, anche nel vuoto della dimenticanza. La musica di Antonio Costa si pone, ancora oggi, in un contesto che vuole essere senza tempo.
Che proprio per questo è capace di rendere eterna una creatura costretta a lasciare il mondo prima ancora di averne gustato il sapore, una creatura e insieme un villaggio con i suoi trentasei mulini, che una ventata di cambiamento ha travolto con la sua cieca passione, diciamo pure ossessione, per il futuro.
Mettere insieme un clima di tristezza e di allegria, di lutto e di festa, sino a trasformarlo in un vero e proprio pathos, poteva farlo soltanto Antonio Costa.
La sua naturale vena di malinconia permane anche quando subentra l’allegria, come in fondo troviamo nelle melodie sarde più tradizionali.
La malinconia rimane, sia pure discreta, anche quando la tonalità del brano è in maggiore. I suoi richiami armonici fra due terze sono caratteristici del nostro folclore, compreso il canto a tenore.
Ecco perché, così intimamente legata alla tradizione, questa canzone si rivela come una narrazione lontana, che si dipana in un tempo remoto.
Le sue suggestioni sono dovute a una caratteristica fondamentale, costituita da una successione accordale di terza ascendente.
Passando da maggiore a minore, come all’inizio della canzone; ma anche da maggiore a maggiore, come nell’ultima strofa, per accrescere l’incisività del canto.
Ma il merito non può e non poteva essere soltanto di Costa, va sicuramente attribuito anche alla lingua sarda, nella variante logudorese, con la quale si è naturalmente sposata la sua armonia.
Di qui l’evidente influenza della lingua sulla musica e viceversa, e appare altrettanto evidente, io credo, l’intreccio profondo che li lega e li fonde, sino a far pensare a un solo autore e a un solo volto: quello della gente, della quale la canzone racconta una sua storia. Specifica e concreta, ma anche simbolica, che riguarda i suoi sentimenti, il suo vissuto.
In conclusione. Badde lontana, composta nel 1972, non per caso alla vigilia della festa di san Lorenzo, è nata al di fuori di qualunque laboratorio, senza calcoli commerciali.
E’ nata nel giorno stesso in cui ho confidato ad Antonio Costa il mio tormento a riguardo di una tragedia accaduta a San Lorenzo, che avrei voluto raccontare perché la sua brevissima esistenza venisse compensata da almeno un piccolo segno di giustizia: il suo racconto in musica.
Perciò gli ho spiegato tutta la storia, immaginandola attraverso lo sguardo della madre, durante un suo ritorno alla festa di san Lorenzo.
Compresi subito che anche lui era rimasto colpito dalla morte del bimbo nella culla e perciò si sarebbe lasciato ispirare da questo evento.
Pochi giorni dopo, Antonio mi affidò la sua musica proprio come io gli avevo affidato la storia del bambino e della madre. Poi il sogno, come ho detto prima, ha fatto il resto.
Dopo l’incisione dei Bertas, nel 1974, il pubblico sardo non ha esitato a farla propria, questa canzone, indefinitamente, perché parlava proprio di lui; l’ha accolta per quello che voleva essere fin dall’inizio: una sua storia, un suo canto popolare. Per questo credo di poter dire che, nel campo della canzone moderna, Badde lontana è una vera e propria anomalia.
Riferita al passato, invece, appare direttamente in continuità con la tradizione sarda. Proprio per questo è stata accolta nel repertorio popolare, soprattutto in quello dei Cori sardi, accanto a Deus ti salvet Maria, Nanneddu meu, Non potho reposare, ma anche nel repertorio di Cori della penisola.
CANTIGU DE MEMORIA – CANTO DELLA MEMORIA
Testo: Antonio Strinna – Musica: Antonio Costa
BADDE LONTANA
Sutta su chelu de fizu meu
como si cantat finza tres dies:
Badde lontana, badde Larentu
solu deo piango pensende a tie.
Mortu mi l’hasa chena piedade
cun d’una rocca furada a Deus:
Badde lontana, badde Larentu
comente fatto a ti perdonare?
Zente allegra e bella festa,
poetes in donzi domo.
Cherzo cantare, cherzo pregare
ma non m’ascurtada su coro meu.
Dami sa manu, Santu Larentu,
deo so gherrende intro a mie.
Dami sa manu, mi so perdende,
fàghemi isperare umpare a tie.
Anno di composizione: 1972
Primo interprete: I Bertas
Incisione: City record, Milano, 1974