di Maurizio Casu
Zuniari risaliva in verticale, lungo pozzo Podestà. Il turno finito, casco in testa e lanterna a carburo in mano, fissava le venature della roccia, argento, come i suoi capelli impolverati. Veniva sputato fuori dalla terra, dalle sue viscere, come un pasto indigesto. Arrivò all’Argentiera con i suoi genitori e i suoi fratelli anni addietro, per fuggire dalla fame, per scavare la montagna, per pura necessità. Sposò sua cugina Lucia, osteggiato dai parenti. «Siete cugini, i vostri figli nasceranno malati.» Giovannina e Franceschina, nacquero in salute per far tacere le malelingue e ribadire che l’amore non conosce genealogia.
La luce baluginava in superficie, quando un argano iniziò ad incespicare. Zuniari distolse gli occhi dal muro e diede uno sguardo fugace ad Umberto che boccheggiava verso l’alto, come un pesce fuor d’acqua. Nessuno dei due parlava ma la paura gli si leggeva in viso. Il sudore colava a fiotti. «Ancora qualche metro e…» sussurrò Gavino detto Zuniari. Umberto continuava a deglutire. Il cerchio di luce si ingrandiva sopra le teste dei due minatori e l’aria si faceva meno torbida. Il suono della sirena indicava il cambio del turno e il rumore assordante della laverìa li riportava nel mondo dei vivi. Un saluto alle gallerie, Rietto, Calabronis. Un saluto ai pozzi, Umberto, Alda. A domani, Inferno. Come le tarme scavavano gli uomini, laggiù, fino ad arrivare sotto il livello del mare.
La squadra si dirigeva verso il villaggio, dove donne e bambini aspettavano impazienti il ritorno dei loro uomini, stanchi, sudati e scontrosi. Amati e venerati come degli eroi, veri e propri martiri immolati alla famiglia e alla società Correboi. L’azienda forniva il lavoro, la casa nel villaggio e un libretto per fare la spesa allo spaccio chiamato “cantina”. La natura forniva il profumo della salsedine e del lentischio. I bambini con i loro sorrisi fornivano un valido motivo per sopportare tutto il resto. In quella che un giorno verrà chiamata “Via Miniera Vecchia”, Giovannina aspettava suo padre. Capelli neri crespi e occhi intensi del colore delle ghiande. Improvvisamente ebbe la visione di se stessa che spiegava ad una signora che quell’uomo ritratto nella foto era proprio suo padre.
«Sì, signorina vede, questo era il nostro cane, ora non ricordo il nome.»
«Quindi Lei, signora, viveva qui?» incalzava la ragazza. «Certo…»
Il fugace sogno ad occhi aperti lasciò la bambina stordita. «Giovannina, Giovannina! – la scuoteva Zuniari – Andiamo a casa? ho un regalo per te!»
«Sì, Babbo, cos’è?»
«Abbassa la voce, e’ una cosa segreta…»
La porta si schiuse ed ecco comparire un uomo, una bambina di quasi nove anni e un regalo misterioso. Il calore della casa invase i sensi di entrambi. Giovannina corse a chiamare sua sorella! «Ma e’ solo una pietra!» Il regalo non aveva sortito l’effetto sperato. Le bambine deluse e Lucia alterata.
«E’ proibito, lo sai!»
«La metterò sul caminetto. Guardate bambine, si chiama Galena.»
Una bella galena argentifera che sarebbe costata un severo richiamo, ma nessun dirigente avrebbe mai messo piede in casa di un operaio.
***
La vita all’Argentiera era scandita dalle sirene. Suonavano per indicare la “sciolta” e la ripresa dei lavori. I turni da otto ore erano massacranti e coprivano le intere ventiquattro ore, non mancavano comunque gli svaghi. Esistevano due circoli, uno per gli operai e l’altro per i dirigenti, impiegati amministrativi, tecnici e per il medico. I secondi avevano libero accesso ovunque, mentre i primi potevano trascorrere le ore solo nei loro ambienti, tuttavia, nonostante la suddivisione in classi, in entrambi i circoli il tempo veniva impiegato al medesimo modo. I giochi di carte si alternavano ad un sorso di vino ed una chiacchiera.
La laverìa in legno era appena entrata in funzione e tramite uno strano processo chiamato flottazione separava il minerale buono da quello di scarto, abbandonato sotto forma di fanghiglia sul lato sinistro della spiaggia. I bambini giocavano con il fango, poi correvano sul ponte vecchio, dove i minatori marinai attraccavano le loro barche. Le persone sapevano di mare e di terra, i visi raggrinziti ed abbronzati. Polvere d’argento nei capelli. Il sale sulle labbra. La scogliera a picco. Nord ovest.
Sul ponte stava spesso Giovannina a godersi i tuffi acrobatici. La spiaggia, sul lato destro, era attrezzata con dei ripari in legno anch’essi suddivisi in classi sociali. Operai con operai. Confinati. Gli unici a non seguire distinzioni erano i più piccoli. Semi di un futuro diverso.
La domenica si tagliava per i campi, costeggiando Porto Palmas, fino a Calaunanu. Tutta salita, nei vestiti migliori, fino alla chiesa. Don Meloni, lucidava nel cortile la moto Guzzi, di cui andava molto fiero. Sempre a tutta velocità, lo si poteva incontrare al circolo degli operai mentre sgridava i minatori che raramente vedeva in chiesa. «Come potete star tranquilli, senza la protezione di Santa Barbara?» Appassionato di astronomia, scrutava le stelle, forse alla ricerca di Dio.
I primi fedeli arrivavano grondanti sudore e lui tralasciando le cure per la sua amata Guzzi si preparava all’accoglienza. Nessuna distinzione in chiesa. Liberi di sedersi ovunque, era comunque improbabile vedere gli operai davanti ai dirigenti. Erano anni che l’omelia iniziava con la stessa frase, pronunciata come una formula da un parroco ormai rassegnato.
«Come ogni Domenica, constato che a venire in chiesa sono sempre le donne ed i bambini, eppure i minatori sono quelli che hanno maggior bisogno della protezione divina, allora preghiamo per loro: Santa Barbara Benedetta, liberaci dal tuono e dalla saetta!»
Dopo la messa Lucia si fermava con le altre donne. Il cortile della chiesa era il luogo dove si apprendevano tutte le novità, da Palmadula fino a miniera vecchia. Il pettegolezzo era inevitabile.
Zuniari passava la domenica con la compagnia di caccia. I preparativi iniziavano dal sabato sera, quando smontato il turno a lavoro si dedicava alla pulizia del fucile. Un vero e proprio rito. Il fucile ridotto in pezzi veniva adagiato sul tavolo di marmo in cucina e mediante un pennellino cosparso di nafta. In quei momenti il nostro cacciatore/minatore pareva assorto a contemplare chissà quale mondo o ad immaginare chissà quale fantastica battuta di caccia.
Una volta rimontata l’arma si dedicava alla preparazione di due o tre cartucce a palla “speciali” da usare per portare a casa il più grosso cinghiale della stagione, di quelli che suscitano l’ammirazione di tutti i battitori, di quelli che si fa festa in tutto il paese. E la festa puntualmente arrivava, quando al calar della sera si udivano i fischi e le campanelle legate al collo dei cani risuonare per la valle. La compagnia si riversava nella piazza ad esibire la cacciagione ed idolatrare il più bravo/fortunato della giornata. Il vino scorreva a fiumi e i canti a chitarra scaldavano il cuore anche del parroco, sceso dal suo rifugio per predicare la buona novella a quei poveri diavoli.
Giovannina ronzava intorno a suo padre fino a quando non riusciva ad ottenere il codino ancora fumante del cinghiale, poi si precipitava a rosicchiarlo sul molo in tutta tranquillità. Intanto il sole naufragava fra i flutti, riportando alla mente il lavoro. I visi si facevano pensierosi, le chitarre rallentavano il ritmo e qualche solista si lanciava in un canto di commiato. Tutti si avviavano verso casa pensando all’indomani, al senso della vita, alla prossima domenica, al rombo della Guzzi che si arrampicava su nel cielo, lontano.
***
Scavare la terra è come scavare l’anima, il tempo scorre lento, l’aria pesante e i pensieri galleggiano nell’oscurità insieme alla polvere.
«Penetra il mio corpo, la polvere di silicio, fin dentro i polmoni. Il mio lavoro in galleria consiste nel puntellare con travi di legno le pareti, in modo che la montagna non ci frani sulla testa. Ogni crepitio ci fa sobbalzare, la voce della terra si distingue chiaramente anche fra i clangori dei carrelli e il vociare dei compagni. Il tempo non esiste, non esiste l’alba, non esiste il tramonto, se non fosse per il canto delle sirene rimarremmo intrappolati per sempre ad attendere la fine del nostro turno. Le gallerie pullulano di fantasmi, di tanto in tanto s’incontrano strani personaggi con vesti ed elmetti da centurione romano, sono di casa e ci proteggono. La loro presenza desta sempre sconcerto nei nuovi arrivati, ma in superficie nessuno ne parla. Lucia, mia moglie, aspetta il nostro terzo figlio, spero che stavolta sia un maschio. Abbiamo già due figlie, la più grande deve compiere nove anni, poi Franceschina che ne ha sei.»
Zuniari parlava con i suoi fantasmi, quando udì la terra tremare. Pietro arrivava di corsa dal fondo della galleria. «Scappa! Frana tutto!» Una trave si staccò dai due metri scarsi di soffitto e travolse il poveretto colpendo Zuniari che rovinò al suolo perdendo i sensi.
Lucia preparava il pranzo con sua madre, venuta in visita da Palmadula. Le bambine nascondevano i fichi secchi portati in dono dalla nonna.
«Mettiamoli sotto il letto!»
«Voglio mangiarne subito uno…»
La notizia arrivò in un baleno, superando le macerie e risalendo per i pozzi Umberto e Podestà fino alla piazza del borgo. Una squadra di quattro uomini si calò fino alla galleria, sollevarono la trave che teneva inchiodato al suolo il primo uomo e iniziarono a scavare per recuperare il corpo ormai privo di vita del povero Pietro. In superficie, intanto, le donne snocciolavano rosari sotto la guida di Don Meloni precipitatosi a tutta velocità con occhialoni e motocicletta direttamente da Cala Onano.
Portarono in superficie quello che restava di Pietro accompagnato da urla di disperazione, imprecazioni e la benedizione del prete. Il silenzio si fece palpabile. Lucia non osava fiatare, le lacrime le rigavano il viso, teneva le mani premute sul ventre.
Zuniari fu portato a casa, aveva due costole rotte e una grave insufficienza respiratoria. Il medico vedeva chiari i segni della silicosi, aggravati dall’incidente. Insufficienza respiratoria, scompenso cardiaco. I suoi pazienti convivevano e morivano con la polvere.
Tutta la famiglia si strinse nella stanza da letto, le bambine stavano sedute per terra, occhi gonfi e pensieri troppo pesanti. L’uomo tossiva in maniera convulsiva. Lucia piangeva mentre il marito con le ultime forze rimaste tentava di accarezzarle la pancia.
«Vedi, caro amico, questa è mia moglie, tiene in grembo una creatura, se sarà maschio o femmina non importa più. Hai visto le mie figlie, sono proprio belle…»
Il centurione lo guardava con compassione e per la prima volta proferì parola.
«Gavino Ghisu, dobbiamo andare. Anch’io avevo una famiglia, noi romani fummo i primi a lavorare nella miniera…»
«L’unico rammarico è non sapere…»
Il suo amico lo interruppe.
«Sarà una bella bambina.»
Il cimitero è a picco sul mare, d’inverno le onde che s’infrangono sugli scogli arrivano a bagnare il muro di cinta che separa la terra dal mare. I vivi dai morti. La polvere dall’acqua. I funerali furono strazianti, il parroco lasciò il corteo funebre diretto al cimitero con la scusa che i canti non erano intonati.
Quella notte Don Meloni scrutò il cielo alla ricerca dei due operai. Suonò per loro il violoncello, sperando di rimediare al danno fatto dalle pie donne stonate.
Un commento su “STORIE DI VITA DALL’ARGENTIERA”