di Benito Olmeo
A tu per tu con Marco Silecchia, figlio d’arte del maestro Giuseppe Silecchia. Una chiacchierata che dedichiamo a voi lettori, nel quale si toccano i tasti della sensibilità, dell’arte applicata e del riuscire a portare avanti con tanta umiltà una tradizione di famiglia.
Quando hai capito che il tuo lavoro sarebbe stata l‘arte della ceramica?
Ero un ragazzino. Ho avuto la fortuna di avere un padre che era un Maestro nel suo mestiere. Lui è stato ed è – perché l‘arte poi ti da questa specie di eternità attraverso le opere – un caposcuola. Per me questa è stata una grande fortuna. Nel suo laboratorio di viale Mancini, di fronte al Padiglione dell‘Artigianato, giocavo con l‘argilla e giocando si impara! Lo guardando, lo osservavo, imparavo aiutandolo. Poi si cresce, si diventa autonomi e ci si esprime attraverso la propria personalità. Bisogna studiare molto e confrontarsi poi con cose che vanno al di fuori di quello che puoi trovare a casa, altri maestri o altre personalità che ti arricchiscono. Ognuna di queste cose contribuisce alla crescita artistica e personale.
Ci racconti come nasce e cresce una tua opera?
Le opere nascono da una sinergia tra il committente e l‘artista. Si attivano queste due energie creatrici di colui che desidera una cosa e dell‘artista che è in grado di realizzarla. Questa unione di intenti fa in modo che l‘opera prenda vita. Tutto si sviluppa da un‘idea che viene trasferita su carta in un modo molto semplice, con una banalissima penna Bic o una matita, magari anche solo su una carta da pacchi. L‘idea si sviluppa e, qualora sia necessario, diventa un progetto esecutivo.
Tu sei un figlio d‘arte. Ti è mai stato di peso confrontarti con il nome di tuo padre?
No, affato! Mio padre aveva un carattere bellissimo. Era conosciuto per essere uno spirito allegro, gioviale e di compagnia. Mi ha insegnato che la preparazione deve essere la prima cosa per affrontare il lavoro nel migliore dei modi e poi ha avuto sempre l‘intelligenza di lasciarmi la libertà crescere e sviluppare una mia personalità autonoma. La vera vittoria di un Maestro consiste nel vedere l‘allievo che compie un percorso artistico personale.
«Le opere d’arte sono sempre il frutto dell’essere stati in pericolo, dell’essersi spinti, in un’esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare.» Cosa pensi di questa affermazione del grande poeta Rilke?
Penso che sia tutto vero. Il cervello di un artista deve spingersi in zone mai esplorate. Per poter avere una tua cifra stilistica devi andare dove altri non sono andati. Si parte da una rotta tracciata altri, possibilmente migliori di te, in modo che ti possano preparare adeguatamente, e poi si deve avere il coraggio di abbandonare la nave con una piccola scialuppa. Si deve navigare in acque sconosciute seguendo il proprio percorso solitario. Bisogna scontrarsi con errori, sbagli e frustrazioni. E‘ l‘unico modo per poter ottenere quella dimensione di sicurezza personale raggiunta la quale inizia il divertimento, le gestualità di pennello diventano carattere e non hai più paura. E’ una frase importantissima ed è quello che tutti dovremmo fare.
Sassari, il suo volto, i suoi personaggi, mi dici che rapporto che ti lega a questa città?
Sono legato moltissimo a Sassari. Credo che questo legame sia connaturato nell’essere isolano. Non c‘è niente da fare, l‘isolano deve fare i conti con il senso di appartenenza, con le radici! Vivere qui ti aggiunge quella completezza che solo la terra dove sei nato può darti, anche con tutte le sue problematiche. Perché alla fine alla fine tutto si sublima in questa specie di romanticismo eterno che c‘è sempre tra il figlio e la terra! Sassari, questa città eternamente discussa, che non va mai bene, con tanti problemi… però tutti quanti alla fine siamo qua, e ci vogliamo bene ugualmente e la amiamo ugualmente. Non è facile, è vero, ma non è facile per nessuno… neanche ad Hong Kong è facile per chi ci vive. Ogni territorio ha le sue sfide! Anzi secondo me noi in qualche modo siamo fortunati perché il nostro ambiente è ancora a misura d’uomo. Io vedo il tanto discusso centro storico, è difficile ma ci sono comunque molti che si adoperano per farlo vivere. Si parla del problemi degli immigrati, anche qui c’è ancora molto da risolvere, ma tanti di loro parlano addirittura in sassarese! Alla fine siamo stati forti e questa integrazione, anche se non lo vogliamo ammettere, sta avvenendo.
Abbiamo nominato tuo padre Giuseppe, allievo del grande Eugenio Tavolara che ne colse da subito le grandi doti, riuscì a portare avanti la tradizione della ceramica che i grandi prima di lui avevano posto le basi. Come era tuo padre?
Mio padre faceva parte di un gruppo di persone – da Spada, a Meledina, Ausonio Tanda, Elio Pulli – dalla mente molto sofisticata, in grado di rendere tutto semplice. Si disegnava anche su un tavolo da cucina, al posto del piatto della minestra c‘era un disegno e poi al posto del disegno ci sarebbe stato un piatto di fainé. Insomma è chiaro che deve esserci anche l‘ambizione verso un guadagno che serve per vivere, per comprare il migliore dei pennelli, per permettersi dei colori di qualità, ma la dimensione dell‘artista deve rimanere nella semplicità della vita quotidiana. Quello che accadeva nel laboratorio di Viale Mancini era uno spettacolo! Vedere queste persone che hanno fatto la storia dell‘arte in Sardegna e capire che i loro ragionamenti erano di una semplicità totale era bellissimo. Si parlava delle cose banali, comuni, del quotidiano che poi invece, di colpo, diventavano arte pura. La semplice convivialità di un pezzo di pane, un bicchiere di vino, un po‘ di formaggio, lo stare insieme in compagnia e poi tutto poi diventava arte! La vita non era in un telefonino. Per loro c‘era la compagnia fisica, gli screzi alla sassarese, quelli che diventano fuoco e poi tornano ad essere amicizia. Tutto questo veniva vissuto e poi diventava un quadro o una ceramica. E‘ un mondo che si è perso nello stile di vita contemporaneo che ci allontana. Se da una parte io posso mandare in un microsecondo un messaggio in Australia, non ho più il rapporto vero, il guardarsi negli occhi! Non c‘è il contatto, si perde quell‘empatia personale che si crea tra due persone quando passano del tempo insieme.
Nel 1956 tuo padre realizzò la grande fontana monumentale in ceramica, alta circa sei metri, che sta al centro della corte maggiore del Padiglione dell‘artigianato di Sassari, progettato da Ubaldo Badas. Ebbe anche una vasta produzione di soggetti sacri: bassorilievi, altorilievi e cicli decorativi anche di grandi dimensioni (qualche opera supera i quattro metri di altezza) che hanno abbellito numerose chiese della Sardegna negli interni e negli esterni. Lo definirei un figlio di Sassari anche se lui nasce a Porto Azzurro. Com’era il suo rapporto con la città di Sassari?
Mio padre era legatissimo alla città di Sassari! Tutto lo legava a Sassari! Era un grande frequentatore di certi posti tipici cittadini nei quali amava ritrovarsi con gli amici. Gli piacevano tutte le tradizioni eno-gastronomiche, adorava i piatti tipici. Tutte queste piccole grandi cose lo hanno reso un vero sassarese anche se non era nato qui. Parlava il sassarese e amava molto questa città.
Giuseppe Dessi affermava: «Con lui si poteva parlare di tutto, di pittura, di musica, di filosofia, di magia e di politica. Non era uno di quegli artisti che disdegnavano quegli argomenti che non lo toccavano direttamente. Colto, informato, sembrava che fosse vissuto a Parigi. Invece era sempre stato lì tra Viale Caprera e Piazza d‘Italia.» Ovviamente parlava di Tavolara. Hai un ricordo particolare di lui legato a te o a tuo padre? E perchè secondo te tante volte dimentichiamo di aver avuto avuto arte e artisti di questo livello?
Questo è il dramma dell‘indifferenza. E‘ un grande dispiacere perché è un‘indifferenza che purtroppo stiamo pagando tutti. Sarebbe stato meraviglioso avere a Sassari un museo con delle sale in cui ammirare i nostri grandi artisti: Biasi, Meledina, tutti i grandi che hanno fatto la scuola di Sassari! Ancora non lo abbiamo, non siamo incappati nell‘amministrazione che dedichi la giusta attenzione a questo! Non dimentichiamo che Sassari potrebbe essere benissimo anche una città con risvolti turistici perché i turisti arrivano e vorrebbero visitarla. Non possiamo pensare che il Museo Sanna sia sempre e solo l‘unica risposta. Tavolara era un precursore! Il Padiglione dell‘Artigianato era nato per far vedere ai cittadini ciò che si faceva e si sapeva fare! Ma è sempre chiuso. Credo che ci siano come sempre dei motivi economici e burocratici, ma penso che bisognerebbe riflettere su questo fatto perché se si ha la volontà le cose possono essere fatte!
Che ricordo hai di tuo padre come uomo e come artista?
Ricorderò sempre la sua rigorosità nel quotidiano. Come ho detto mio padre era un uomo gioviale ma nel privato e nel suo lavoro diventava una persona molto rigorosa. Ad esempio ogni mattina alle 6:00 faceva ginnastica, che fosse inverno o estate! Aveva un suo personale stile di vita e questa sua disciplina è stata sempre di insegnamento perché se tu vuoi veramente creare qualcosa di importante nella vita bisogna essere molto disciplinato. In questo senso la vita di mio padre può sfatare il luogo comune dell‘artista dalla vita disordinata. La vita quotidiana va affrontata ogni giorno con dedizione, anche perché per realizzare certe opere è necessario un incredibile impegno e attenzione. Pensate al Cristo di Orgosolo, è alto 4 metri, per far fronte a questo tipo di lavoro devi avere una forza psicologica che solo un grande rigore disciplinare quotidiano può darti. Bisogna sfatare questa diceria dell‘artista maledetto perché a nessuno piacerebbe morire a 30 anni, anzi è bello proprio invecchiare e godersi la vita! Mio padre è stato un esempio: è morto a 89 anni e ha lavorato quasi fino all‘ultimo!
Da poco sei stato incaricato di restaurare la targa dedicata a “Bobby Cane Kilometro” sita sotto i portici Crispo. Cosa hai provato nel ristrutturala un‘opera che era stata creata e ideata da tuo padre?
Quella targa rappresenta davvero la testimonianza dell‘appartenenza di mio padre a questa città! Ogni volta che passo lì, alzo la testa perché mi ricordo tutto, anche il primo restauro che lui fece negli anni ‚90. Era già intervenuto una volta perché ci teneva moltissimo. Raccontava la storia di questo cane che era affezionato a quel luogo che era diventato il suo territorio… quindi è stato bello perché ho rivissuto tutto e mi sembrava che ci fosse anche lui con me!
Quando pensi al tuo percorso alla tua vita in generale, ti sei mai chiesto chi è in realtà Marco Silecchia?
Io sono un artista, la mia vita è solo questa, dalla mattina alla sera!
foto: Alessandro Luiu
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