Torino, 21 settembre 1911
Preg. Sig. Ing. Di Suni
(…) mi faccia pervenire delle offerte delle materie di costruzione: pietre, malte, mattoni, ghiaia per calcestruzzo ecc.
Perché ella si sappia regolare Le dico che la palazzina che copre circa 350-400 metri quadrati ha un pianterreno sopraelevato, un primo e secondo piano ed una torre. Lo stile è il fiorentino con bifore e trifore e finestre a pieno centro; la decorazione esterna è semplice ma tutta improntata ai caratteri del tempo. Le decorazioni interne sono di una certa importanza, specialmente per il pian terreno dove si ha un gran salone da ballo, due salotti, il bigliardo, il fumoir, la sala da pranzo, lo studio e la hall che comprende lo scalone a tenaglia. Al primo piano e al secondo piano la decorazione non è così grandiosa.
La saluto distintamente
Firmato: Ing. D. Lopresti
Un anno dopo chi commissionò la costruzione di quella palazzina è davanti al Giudice, interrogato. E risponde:
Nel 1911 ho avuto la disgraziata idea di costruire una casa in Sassari. Dico disgraziata idea perché la somma preventivata è stata triplicata, si arriva quasi al mezzo milione, la casa non è ultimata e ciò non bastasse mi trovo complicato nel processo.
Fermiamoci qui. Una palazzina in costruzione, qualcosa che accade e quel qualcosa che porta a un processo.
Gaspare Arborio Mella di Sant’Elia, nato a Sassari nel 1873 e residente a Rocca San Casciano, possidente, capitano dei RR.CC., sposò nel 1910 Josefina Racca, nata in Argentina nel 1892, agiata. Formatasi presso scuole e collegi francesi e svizzeri, per Josefina ciò che Sassari aveva da offrirle non era abbastanza. Colta, mecenate, amante dei viaggi, della moda e delle feste, insoddisfatta degli edifici con affacci su Piazza Tola, Via Cesare Battisti e Piazzetta Nazario Sauro, Josefina spinse il marito a edificare un nuova residenza. Oggi la conosciamo come Villa Mimosa, in onore alla pianta così tanto amata dalla giovane sposa che un ramo è ritratto insieme a lei in un dipinto esposto alla Pinacoteca Nazionale di Sassari. Sofisticata e altera, nel 1928 Aldo Severi la ritrae, le braccia nude, in un abito da sera di seta cangiante sui toni del pervinca, chissà se frutto delle mani esperte di qualche sarta locale o di una maison parigina. Unico gioiello, oltre a un bottone che richiama il suo fiore preferito, un lungo filo di perle che le va a scivolare sulla mano sinistra, aperta a cucchiaio.
Anche lei interrogata, dirà solo che non aveva nessuna parte nel contratto per la costruzione della villa.
Per scoprire il perché del processo, smettiamo i nostri panni e indossiamo quelli del lettore de La Nuova di centodieci anni fa. Ripercorriamo paragrafo per paragrafo le parole di quei fogli fragili, sette colonne su due pagine e il linguaggio ostentato e smaccato dell’epoca.
Il 7 settembre 1912, tra una puntata del romanzo Traccia di sangue di P. Manetty e due decessi per una malattia ignota che portarono all’isolamento preventivo di trenta persone a Nuraminis, il titolo non lascia niente in sospeso: Il terribile disastro in un villino di Piazza d’Armi. Tre operai morti e nove feriti. Il dolore della cittadinanza.
La notizia- Ieri sera verso le 19.30 si sparse fulmineamente per la città la notizia di una fatale catastrofe avvenuta nel villino che il conte Gaspare Mella di Sant’Elia fa costruire in Piazza d’Armi. Vi lavorano da parecchio tempo una squadra di valenti operai piemontesi e parecchi sassaresi. Dirigeva i lavori l’ing. Di Suni che da parecchi giorni si trova in continente. Capo mastro era il sig. Ettore Bertola, torinese di anni 23.
I primi soccorsi- Appena il fatto avvenne e si conobbe si pensò con la massima sollecitudine ai primi soccorsi. Il primo ad accorrere fu certo Piu, operaio in una fabbrica vicina. Si avvertì subito il piantone del municipio e il personale del nostro ospedale civile.
All’ospedale- Nel piazzale dell’ospedale la folla ingrossa in ogni momento. È un accorrere frettoloso e nervoso di medici che vogliono prestare le loro opere. L’anima cittadina si solleva con un impulso di pietà. Sulla massa compatta e muta degli operai passa come un brivido di terrore. Lo stato dei feriti è gravissimo. È una visione di sangue.
La visione- Lo spettacolo stringe il cuore e non si ha il coraggio di continuare a guardare questo macello umano di carne lacerata e pestata, queste chiazze sanguinose, questo vermiglio sangue che scorre lasciando tracce sui pavimenti, sulle barelle, sul candore della biancheria.
Nel fascicolo le lastre di cartone su cui sono incollate le foto del sopralluogo, a firma Antonio Casteldini, descrivono l’ammasso di tavole spezzate e le travi in bilico, la polvere e il silenzio dopo il boato. A guardarle leggendo la testimonianza di un operaio, impatto visivo ed emotivo si mischiano:
Erano le 19, si era sul punto di terminare il lavoro. Quasi tutti gli operai si trovavano sul ponte intenti a collocare un masso di cemento armato per il cornicione. Il ponte era fatto in questo modo: le tavole posavano su una trave. Una estremità di questa trave posava sul muro, corrispondeva al vano di una finestra cosicchè, non potendo poggiare sul muro fu poggiata su una trave più piccola che si spezzò, dimodochè il ponte, non avendo più sostegno da una parte si inclinò e dall’altra fece leva sul muro, determinando il crollo.
Tre i morti: il torinese ventitreenne Ettore Bertola, il sedicenne torinese Luigi Ferrario e il sassarese quarantasettenne Marcello Brange. Frattura del cranio e conseguente commozione cerebrale, si legge sui certificati del medico dell’Ospedale Civile, il Prof. Nicolò Simula. Per caduta nel disastro edilizio del villino in costruzione del nobile Don Gaspare di Sant’Elia, conclude. L’8 settembre alle 16, con la partecipazione delle autorità, della Cooperativa Agricola Tissese, dell’Unione Popolare, degli istituti pii e delle associazioni dei lavoratori, i loro funerali. C’erano la banda cittadina, palme con i colori del Comune sulle bare, ceri e corone, sottolinea il cronista.
Nove, invece, tra sassaresi e torinesi, i feriti: quattordici anni il muratorino più giovane, quaranta il più vecchio. Tutti intervistati. In rassegna. Uno via l’altro. Tra medici, medicazioni, e suore pallide raccontano le loro prognosi: chi quaranta giorni per una frattura all’avambraccio, chi dieci giorni per una ferita alla gamba, chi rantola per la gravità delle ferite e a parlare non ce la fa.
Sin qui la cronaca. Gli atti, invece, in pagine e pagine di tecnicismi parlano della perizia sulla trave spezzata e degli accertamenti per verificare se gli operai fossero assicurati. Cosa che non erano: a tal uopo (noi RR.CC.) ci siamo recati all’agenzia locale della Cassa Nazionale sita in via Mercato 3, ove l’avvocato Pazzi Ottavio, gerente tale ufficio, ci ha dichiarato che l’assicurazione degli operai addetti a suddetto lavoro era scaduta senza essere stata rinnovata e che dai suoi registri figura come imprenditore di tali lavori Bertola Ettore, deceduto.
Ma come? Non era l’ing. Lopresti, il progettista, direttore generale e rappresentante del Mella e l’ing. Di Suni appaltatore con facoltà di subappaltare, ma comunque unico responsabile dei lavori?, come Don Gaspare dichiarò al Giudice. In teoria sì. Ma in pratica, considerate le prolungate assenze, il Di Suni si avvalse del Bertola, semplice capomastro, come prestanome che si interessava anche di paghe, amministrazione e acquisti.
Quasi cinque mesi, per la perizia sulla trave spezzata. Spezzata perché di scarsa qualità: perché la sua resistenza era profondamente minata, avendo il tarlo esercitato la sua opera distuggitrice nelle fibre legnose, stato di dissolvimento che non appariva manifesto in tutta la sua gravità. Perché anche se la tarlatura non era evidente, la presenza di un grosso nodo avrebbe però dovuto far venire almeno un dubbio sulla qualità e sulla resistenza della trave. Dubbio che avrebbe dovuto portare all’esame del nodo. Cosa che non fu.
Colpa del defunto Bertola, dunque, a cui Di Suni aveva delegato i lavori? Bertola, che non aveva competenze tecniche e a cui comunque non spettava l’obbligo della vigilanza? Così come non spettava a Lopresti?
E infatti sarebbe troppo comoda teoria se si ammettesse che un ingengnere assuntore di una costruzione ingente pur continuando a godere degli utili potesse spogliarsi dei rischi per aver affidato a uno che tecnicamente non può sostituirlo una porzione qualunque dell’opera, scrive il Giudice.
Contumaci l’ing. Di Suni, Don Gaspare e sua moglie e imputati Paliaccio di Suni Giulio e Lopresti Seminerio Decenzio per tre omicidi colposi e lesioni personali per negligenza, imprudenza e inosservanza del regolamento sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, e gli stessi Di Suni e Lo Presti nonché Arborio Mella di Sant’Elia Gaspare e Racca Josefina per mancata assicurazione degli operai, per aver dichiarato l’impiego di dodici operai mentre ne erano impiegati da ventiquattro a ventisette, per omessa denuncia dell’inizio dei lavori, il 21 maggio 1915 la sentenza: condanna a dieci mesi per l’ing. Di Suni, assoluzione per gli altri.
Appellante, il 28 dicembre 1915, l’ing. Di Suni è assolto per insufficienza di prove dall’accusa di omicidio colposo e per amnistia dalle contravvenzioni.
di Lorena Piras – Criminologa
Per le fonti si ringrazia l’Archivio di Stato di Sassari, la Biblioteca Comunale di Sassari e il Prof. Alessandro Ponzeletti, storico dell’arte.
Per l’utilizzo delle immagini si ringrazia l’Archivio di Stato di Sassari e il Prof. Alessandro Ponzeletti
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