La lingua più internazionale? La musica. Le mie collaborazioni sono un atto di stima e di amore.
Elena Ledda
La sua non è solo una voce. È un timbro inconfondibile che sa di vento, di terra e di cielo, di lentischio e di ginepro, di mare e di roccia. Di incontri e contaminazioni tra ciò che siamo stati, ciò che siamo e i popoli del mondo. Di una donna che ha portato e continua a portare il suo sguardo fiero oltre i confini dell’Isola e le sue canzoni che parlano d’amore, di nascita, di bambini, di guerra, i temi a lei cari.
«Perché – dice Elena Ledda – il linguaggio musicale è più semplice di quanto non sembri. Di recente ho avuto un incontro con un violinista americano. Giuro che era difficile parlare, ma appena abbiamo iniziato a suonare non c’è stato bisogno di altro. Ho cantato anche con le voci bulgare e i nostri mondi, che sembravano così lontani, invece si sono incontrati ed è stato bellissimo e “facile”, che non significa che non devi studiare o non devi concentrarti. Ma che il linguaggio musicale è più internazionale di qualsiasi lingua».
Elena Ledda, l’intervista
- Cantare in lingua sarda è per te una vocazione. Come è nato questo connubio tra la musica e la lingua sarda? Come si è evoluto nel tempo?
Elena Ledda: Non ho mai dovuto riscoprire o apprendere una lingua sconosciuta. Quando ho iniziato a cantare in sardo era naturale per me. È la mia prima lingua, quella che parlavo normalmente, non solo in casa ma anche con gli amici e con tutte le persone che conoscevo. Dopo è stata anche una scelta di vita, un’affermazione più consapevole. Mi dicevano: “Ma perché con la voce che hai non canti in italiano? Il sardo ti chiude!”. Mi sembravano pazzi. Pensavo: “Ma perché il sardo mi dovrebbe chiudere? Quando usciamo dall’Italia, che io canti in sardo o in italiano è assolutamente lo stesso, anzi… l’italiano è comunque nel mondo una lingua minoritaria, anche se bella, anche se la adoriamo”. Più sentivo questi discorsi e più per me la lingua sarda diventava una scelta politica e culturale. Ho cantato in tantissime lingue. Quando cambio lingua, cambia anche il suono della mia voce. Per me l’espressione è fondamentale e io credo di essere sempre più espressiva quando mi esprimo nella mia lingua madre, che è il sardo.
- Con il primo album Ammentos inizia un percorso insieme a un musicista che è una presenza importante nel tuo percorso professionale nella musica sarda, Mauro Palmas, che ti porterà fino alla world music. Che ricordi hai di quegli anni?
Elena Ledda: La mia carriera come professionista era già iniziata qualche anno prima, nel 1975. Nel ‘79 mi venne data la possibilità di realizzare il mio primo disco, Ammentos, album di canti tradizionali della cultura del Campidano e del Logudoro. Si presentò la necessità di individuare un musicista che suonasse le launeddas e il mio produttore di allora mi suggerì di chiamare Mauro Palmas, allora giovane musicista (a quei tempi suonava la chitarra e già la mandola e poi si è specializzato con la mandola e con il liuto cantabile).
Che ricordi ho? Meravigliosi! Era un momento di grande fermento culturale. In verità a quei tempi non avevo ancora terminato gli studi al Conservatorio (li ho conclusi nel 1984). Da una parte ero impegnata nei concerti da solista, accompagnata da mio fratello alla chitarra (Marcello Ledda, n.d.r.), poi ho iniziato ad avvicinarmi al gruppo che in quel momento si occupava di world music, Suonofficina. Avevo intrapreso queste carriere parallele, insieme alla classica, perché ho continuato ad occuparmi di canto lirico. Finché, quando ho finito gli studi, ho deciso da quale parte volessi andare.
Ho un ricordo meraviglioso di quel periodo, perché era un momento in cui a Cagliari, in Sardegna, nel mondo c’era un vasto movimento culturale nel teatro, nella danza, nella musica contemporanea. Ricordo quei tempi con grande affetto, avevo grande voglia di studiare e di apprendere. Avevo anche un gruppo di musica rinascimentale. Era un momento di sperimentazione, in tutti i sensi.
L’accostamento tra me, che provenivo dalla tradizione, e Suonofficina, che invece guardava verso un’altra direzione, è stato un connubio molto importante: dalla mia parte portavo dentro il gruppo tutta la mia conoscenza della musica tradizionale, mentre loro invece mi conducevano verso un mondo che per me, a quei tempi, era sconosciuto. È stato molto bello.
- A proposito di incontri tra culture, tra lingue: Maremannu (2000), Amargura (2004), consolidano la tua maturità artistica. In Amargura nasce la collaborazione con Lino Canavacciuolo. È un album in cui le sonorità della Sardegna e il patrimonio melodico di Napoli si mescolano. Come è nato questo incontro tra la Sardegna e Napoli?
Elena Ledda: Negli anni Novanta avevamo una carriera internazionale molto intensa. Il novanta per cento delle nostre esibizioni si tenevano in Italia, in Germania, in Francia, in Svizzera, in Austria. Quindi era anche naturale avere produttori all’Estero. Il titolo della canzone Maremannu è dedicato a un nostro caro amico ma, soprattutto, a uno degli intellettuali più importanti della Sardegna: Sergio Atzeni. Ho incontrato Lino Canavacciuolo due anni dopo. Nel ‘95 avevamo partecipato alla realizzazione di un disco dedicato a Fabrizio De André. Undici gruppi italiani vennero contattati per tradurre, ognuno nella propria lingua, una canzone di André. Questo lavoro era Canti randagi.
In quel progetto c’era anche Peppe Barra che aveva tradotto Bocca di Rosa. Noi avevamo tradotto Le tre madri. Con Lino Canavacciuolo ci siamo incontrati spesso. Era uno dei musicisti di Beppe Barra – che conoscevo già da molti anni – e, soprattutto, era il suo arrangiatore. Nel 2002 mi chiese di cantare due canzoni del suo primo disco da solista. Questo connubio è andato talmente bene che è stato naturale pensare di produrre il mio disco totalmente. Quindi è nata questa collaborazione con Lino che ha composto quasi tutti i brani di Amargura (alcuni sono di Mauro Palmas).
Ho amato molto questo disco, forse lo reputo uno dei miei lavori più maturi, più belli, più ricchi di sonorità ma anche i testi erano molto importanti. Amargura sembra un testo scritto oggi, per i bambini che muoiono senza nome. Dice: Quando muore un bambino è una tragedia, ma almeno ha una mamma che lo piange, mentre ci sono bambini che non hanno neanche una madre che possa piangerli. Era inoltre un disco incentrato già da allora sull’incomunicabilità tra le persone. Sa neghe ad esempio, parla della difficoltà di comunicazione tra due adulti che parlano ma non si capiscono.
E poi in Amargura ci sono canzoni d’amore e i temi da sempre a me cari, come la guerra: “Supra sas àndalas de s’amargura/ Cando falant a terra sas aeras/ E su chelu promissu non b’est/ Como chi sa culpa nos leat/ Ca mai si morit sola una criatura/ Ateros milli ruent umpare a issa/ Si ch’andant e no l’ischis mai/ E no est nùmene de l’ammentare” (“Sui sentieri dell’amarezza/ Quando i cieli discendono sulla terra/ E il cielo promesso non c’è/ Ora che la colpa ci prende/ Perché non muore mai da sola una creatura/ Altri mille cadono insieme a lei/ Se ve vanno e non lo sai mai/ E non è un nome da ricordare”)
Questo disco ha avuto un’importanza particolare per me, perché mi ha dato l’opportunità di cantare alcune cose che erano un po’ più lontane dalle mie corde, ma scritte da Lino sempre con un’attenzione particolare, nel senso che conosceva bene la mia vocalità, sapeva dove andare a cercare per renderla al meglio. Alcune canzoni del disco sono diventate successi internazionali, hanno milioni e milioni di ascolti sui canali Spotify, o su Youtube. Non riusciamo a capire come sia potuto avvenire.
La collaborazione con Lino poi è andata avanti per molto tempo, nel senso che ho lavorato tantissimo nei suoi dischi, nei suoi concerti. In seguito ha iniziato a scrivere soprattutto per il cinema, per la televisione, e in qualche modo la sua carriera si è incentrata sulla composizione di musiche per film, ma è una collaborazione aperta, che può sempre ricominciare».
- Le tue collaborazioni sono veramente tante: come scegli i musicisti con i quali lavori e qual è il segreto per la lunga collaborazione artistica con Mauro Palmas?
Elena Ledda: Con Mauro è facile: abbiamo gli stessi obiettivi, abbiamo iniziato questo percorso insieme e non si è mai fermato. Ormai sono quarantatré anni. Non è difficile, io ho sempre avuto “amori lunghi”. Tutti i miei musicisti sono con me da moltissimi anni, ad esempio la collaborazione con Simonetta Soro è nata prima di quella con Mauro Palmas, eravamo compagne al Conservatorio e abbiamo percorso insieme una strada lunga, sia nella musica classica, sia nella musica della ricerca, in quella Rinascimentale e Barocca. Poi nel Duemila le avevo chiesto una collaborazione, perché dovevo fare un concerto di musica sacra in Francia. Da quel giorno non è mai uscita dal nostro gruppo.
Silvano Lobina, il mio bassista, è entrato nel 1993. Amo circondarmi di persone che in qualche modo condividano il progetto. Non mi piace suonare con i turnisti, per quanto bravi. Le collaborazioni sono un atto di stima e d’amore. Io non potrei mai salire su un palco con una persona che non stimo. Tutte le mie collaborazioni sono con persone con le quali condivido una visione della musica e che, soprattutto, ammiro.
- Cantendi a Deus è il tuo lavoro dedicato ai canti sacri della tradizione. Perché hai scelto di trasmettere questo patrimonio che fonde capacità comunicativa e funzione sociale?
Elena Ledda: Ti ringrazio per questa domanda. Quando ho fatto Cantendi a Deus erano trascorsi trent’anni dal mio primo disco, era il 1979/2009. Avevo tre progetti in mente. Non realizzo molti dischi, ma avevo qualcosa da dire, avevo tre progetti pronti e ho pensato di farmi un regalo. Non pensavo che sarebbe stato un disco di successo, così come poi è stato. Avevo studiato tanto la musica della tradizione sacra. Mi piace la musica sacra, perché è sempre bella, particolarmente quella sarda, con tante varietà, con tante possibilità ritmiche, melodiche differenti. Poi anche perché la protagonista è sempre Maria, che racconta attraverso la sua sofferenza la Passione di Cristo. Il mondo viene raccontato dai maschi, però le protagoniste poi sono le donne. Mi piaceva questo sguardo femminile. Ho fatto questo disco spiegando anche che non sottintendeva nessuna crisi mistica.
Non sono credente, però credo nella spiritualità, nella forza di questi canti. Mi sembrava ci fosse bisogno di fermare l’odio, di cercare di concentrarci su altri sentimenti piuttosto che sulla guerra. Ho portato questi canti indifferentemente in tutte le chiese della Sardegna, in Europa, fino alla Chiesa Santa Marta in Vaticano, ma anche nei paesi musulmani, in Algeria, in Tunisia, dappertutto, anche nei Festival più importanti di musica sacra in Marocco, a Fes. Credo nella forza di questi canti. Due anni fa è stato giudicato dalla Radio di Stato Polacca tra i 25milioni di dischi di world music degli ultimi venticinque anni ed è arrivato secondo. Avevo visto bene quando dico che la forza di certi canti supera certe regole. Felice che un disco che nasce senza nessuna velleità commerciale abbia avuto questo grande riconoscimento.
- 2006, Anfiteatro Romano di Cagliari: il duetto con Andrea Parodi, Gratias a La Vida, tocca i cuori del pubblico. A distanza di anni, quel momento è rimasto indelebile nella memoria, come in un fermo immagine. Che ricordi hai di quel momento, che ricordi hai di Andrea Parodi?
Elena Ledda: Quel concerto è stato uno dei momenti più belli e anche più difficili non solo della mia carriera, ma della mia vita. Siamo arrivati a quel concerto senza la certezza che Andrea sarebbe arrivato, perché quando abbiamo programmato quel concerto non eravamo certi che sarebbe stato ancora con noi e ancora di meno lo eravamo il giorno del concerto, perché aveva saltato tutte le prove. Non ha potuto mai raggiungerci per le prove ed è arrivato al concerto in barella. Era una situazione per noi di una emotività unica, inenarrabile. Se uno non vive una cosa del genere non può capire, tant’è che per i musicisti presenti su quel palco, per tutti noi, è stato indimenticabile.
Andrea è arrivato e noi eravamo sempre dietro il palco pronti ad entrare in scena nel caso lui avesse avuto necessità di uscire. Quando è entrato, eravamo tutti lì ad accompagnarlo, è partito l’applauso e dietro le quinte è scoppiato il finimondo: siamo scoppiati a piangere, eravamo tutti in lacrime. Dovevamo far finta che tutto fosse regolare, ma avevamo tanta tensione, però una volta che si è sentito l’applauso ci siamo lasciati andare. Poi sappiamo come è andata. Lui è entrato in scena e non è più uscito per due ore e dieci e ha cantato in maniera inspiegabile.
È stata una lezione di vita per noi e a me, personalmente, ha cambiato completamente il rapporto tra la vita e la morte. Per me la morte da quel momento non è una cosa sconosciuta: è qualcosa che fa parte della vita. Mi ha messo in maniera talmente violenta davanti alla morte che ho quasi imparato non ad apprezzarla e a non pensarla più come una sconosciuta, ma quasi come una compagna che è irrimediabilmente vicina a noi. È vero, ci ha tolto Andrea, è stato un dolore per tutti fortissimo, ma ha consolidato delle amicizie e dei rapporti importantissimi, il mio rapporto con la famiglia di Andrea, con Valentina (Casalena, n.d.r.) e con le figlie. Io e Valentina siamo “sorelle”. Prima ci conoscevamo, ma certamente il rapporto era più stretto con Andrea che con Valentina. Ora penso a Valentina come una sorella, assolutamente. Fa parte della mia vita, così come le bambine, che adesso sono ragazze.
- Elena Ledda e il Premio Andrea Parodi (unico concorso italiano di world music). Un impegno instancabile, che porti avanti da quindici anni. Che cosa cercate negli artisti che partecipano al Premio?
Elena Ledda: L’idea del Premio è nata così, naturalmente, non c’è niente di forzato. Lo facciamo per Andrea, per tutto quello che avrebbe voluto fare e su cui stava lavorando, perché aveva iniziato a fare il produttore: accompagnare i giovani. Niente di più. Noi cerchiamo di portare avanti un progetto credibile, che abbia le gambe per andare verso il mondo, per camminare da solo. Il nostro obiettivo è solo illuminare un artista o un gruppo.
La Fondazione segue i vincitori anche dopo, vengono accompagnati negli altri Festival, coccolati, premiati. Se questo progetto finisse con me sarebbe veramente drammatico e non avrebbe valore. Dunque è importante che dietro di me, che mi avvio verso una carriera che prima o poi si dovrà fermare, ci siano già le altre persone, che siano già in cammino da un po’ per proseguire questo lavoro, perché la nostra musica (lo dico senza polemica) non ha le stesse possibilità di altri generi musicali.
Andiamo per la nostra strada, è un cammino differente, che io ho scelto e sono ben felice. Ciò che facciamo è questo: dare la possibilità nei giorni del Premio a giovani e meno giovani (non ci riferiamo a un’età anagrafica, ma al fatto che non siano conosciuti al grande pubblico) da un pubblico formato da operatori del settore e in quei giorni vengono in contatto con una serie di Festival europei che in qualche modo permette loro di farsi conoscere e notare. Vogliamo che questo cammino non si fermi.
- Quali sono gli altri progetti?
Elena Ledda: Mi occupo della rassegna di world music Mare e Miniere. Da nove anni il cuore di questa manifestazione sono i seminari. Per una settimana Porto Scuso si anima di questi “strani personaggi” che arrivano da tutta Italia e da tutta Europa, che girano con tamburi, launeddas, chitarre, perché dentro la vecchia tonnara, che è un posto meraviglioso, dalle dieci del mattino fino alla sera diamo lezioni di chitarra, di canto popolare, di canto a tenore, di tamburi, di mandola, di musica d’insieme, di tutto quello che riguarda la musica popolare e poi, nell’ultimo giorno, mettiamo insieme uno spettacolo.
Non è un saggio, ma un vero e proprio spettacolo. È un’esperienza esaltante vedere come da tutto il mondo (dalla Norvegia, dalla Francia, dalla Germania, dall’Italia, dalla Sicilia, dal Friuli, dall’Ungheria) arrivino tutte queste persone che per una settimana si trasferiscono lì per lavorare come matte. Quando finisce la settimana la sera siamo stravolti di stanchezza, perché si inizia tutti i giorni alle dieci del mattino e si finisce a mezzanotte (perché terminati i seminari, iniziano i concerti). Ma è un lavoro meraviglioso che mi ha fatto scoprire alcuni talenti che adesso sono in carriera. Mare e Miniere mi terrà impegnata tutta l’estate. È molto gratificante avere con noi il maestro Luigi Lai che ha novant’anni e che guida la classe di launeddas.
- Qual è il tuo rapporto col maestro Luigi Lai?
Elena Ledda: Credo che lui sia uno dei più grandi musicisti che io abbia mai conosciuto nella vita (e non parlo di musica popolare, ma in generale). È veramente una forza della natura per costanza di studio e per la volontà che ha nell’insegnare. Lui studia tutti i giorni, per quattro o cinque ore al giorno. Arriva ai nostri seminari, entra alle dieci della mattina ed è l’ultimo che chiude la porta della sua classe la sera. Assiste ai concerti, va in giro per il mondo a suonare. Ha un entusiasmo incredibile.
Ha la stessa età di mia madre, ma io ho una tale confidenza con Luigi da viverlo non tanto come un padre, ma come un “fratellone”, perché ci conosciamo da più di quarant’anni e abbiamo un affetto grande. Abbiamo iniziato insieme a fare gli spettacoli nelle piazze, perché lui prima viveva in Svizzera. Abbiamo frequentato insieme i palchi della Sardegna e i palchi del mondo per tantissimo tempo. È uno di quei musicisti che ti stupiscono sempre. Tu lo senti mille volte, ma ti fermi sempre ad ascoltarlo.
È un monumento, penso che sia il musicista più importante che noi abbiamo avuto nel Novecento e che anche nel 2000 si sta difendendo. Penso che la Sardegna dovrebbe veramente dargli più riconoscimenti. Quando Luigi mancherà, sarà come se crollassero tutti i Nuraghi in Sardegna! Dovrebbe essere tutelato dall’Unesco! (ride n.dr.). Luigi conosce tutti i saperi dei suonatori antichi, poi è andato avanti, è uno studioso, un ricercatore. Io amo Luigi Lai, non ci posso far niente. Abbiamo fatto un concerto a San Saturnino, finito il concerto mi ha detto: “Concerti così ne dovremmo fare uno al giorno!”. Ha un tale entusiasmo che è difficile che si possa trovare un altro musicista così!
di Luciana Satta
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