di Lorena Piras – criminologa
Nessuno ha parlato di me. Nessuno ha detto chi ero. Nessuno ha chiesto. Un’ombra. Sono questo. Mi sento, questo. Mi hanno chiamata la ragazza, poi, chissà come mai, sono diventata quella che sono: l’infante. A stento di me si è detto il nome: Rosa. Curioso, no? Un nome così delicato, come i miei occhi pieni di sogni e curiosità, eppure mi hanno uccisa nel peggiore dei modi: lasciandomi viva e dimenticandosi di me.
Mi hanno detto che si chiama fascicolo, quella specie di libro dove si parla della mia storia. Mi hanno detto che ci sono un’ottantina di pagine e che sono state restaurate perché è passato tanto tempo, due secoli, tanti, vero? da quando avevo solo cinque anni e un frate ha abusato di me. Mi ha goduto, c’è scritto.
E forse non li avevo neanche, cinque anni. Forse ne avevo sei. Neanche la mia mamma, mamma Giovanna, lo sa. Non sa neanche chi fosse mio padre. Se Pietro, che le aveva promesso di sposarla ma poi è morto, o uno di quei signori con cui la vedevo quando non era impegnata a fare i lavori di casa, come quella mattina. Era l’ultimo giorno di agosto, faceva un gran caldo. La mamma mi aveva portata con sé alla Fontana delle Conce: doveva lavare dei panni, stenderli vicino alla chiesa di Sant’Anna, voi oggi non la conoscete perché è stata abbattuta nel 1890, e una volta asciutti saremmo tornate a casa. O sarei rientrata prima di lei, da sola, come ogni tanto facevo.
Io però quella mattina non avevo voglia di aspettare, così mi sono allontanata. Cammino saltellando, seguo il volo degli uccelli su nel cielo. A ogni saltello mi si muove la gonnellina, indosso quella e una camiciola. Ora la mamma non mi vede più, e neanche io vedo più lei. Lungo la strada incontro un signore. Ha un abito strano, è un frate. È giovane, basso e cicciottello, l’ho visto altre volte perché qui vicino c’è un convento e lui va in giro a fare la questua: chiede stracci per bendare gli ammalati e a volte anche qualcosa da mangiare.
Fra Gerolamo, si chiama, e viene da un paese qui vicino. Ma tutto questo l’ho saputo dopo. Ha delle susine, le ha prese da alcune signore poco prima di incontrarmi. In quel libro, nel fascicolo, c’è solo la sua versione. Io non ho potuto raccontare niente. La paura, il dolore, niente. L’unico ad aver parlato per me, è stato il sangue. Sangue tra le mie gambe, sangue sulla gonnellina, sangue sulla camiciola. Lo ha visto la mia mamma, quando sono tornata da lei con tre monete in mano.
Quello che le ho raccontato, non c’è scritto. Che lui mi ha offerto le susine e mi ha chiesto di seguirlo in una casetta abbandonata dietro al convento. Io sono andata, ma poi volevo andare via. Voglio tornare dalla mamma, dicevo. Ma lui mi ha dato uno schiaffo e mi ha chiuso la bocca con il palmo della mano. Era tanto grande, mi copriva tutta faccia. Poi mi ha buttata per terra e mi ha sollevato la gonnellina. Era pesante. C’era tanta polvere, tanta rovina. E io non ero diversa da tutte quelle cianfrusaglie abbandonate. Non potevo muovermi, vedevo il cielo perché non c’era il tetto. Seguivo il volo degli uccelli. Poi ho sentito tanto male, là. Quando ha finito mi ha dato tre monete e sono ritornata verso la chiesa.
– Rosa! Rosa, dove sei? Qualcuno ha visto la mia bambina?
Quando arrivo, la mamma sta urlando il mio nome, intorno a lei ci sono altre donne.
Lei mi prende per la mano, la seguo inerme, il mio braccio è come quello di una bambola rotta, stiamo andando al convento, le ho detto del vestito da frate. Bussa ma viene mandata via perché i frati stanno pranzando. Ma la mamma non va via. Aspetta. Alle 15, così è scritto, bussa ancora, e chiede se c’è un frate che va in giro a chiedere stracci. Uno c’è. E non è ancora neanche frate, non ha ancora preso i voti. È quel Fra Gerolamo. Quello delle susine. Quello che mi ha fatto male. Si è cambiato, non è vestito come prima ma lo riconosco. Gli altri frati e la mia mamma mi lavano con il vino. Devono disinfettare, dicono. Il giorno dopo mi visitano i dottori. Dicono parole che non conosco, che non capisco. Lacerazione, tumefazione, infiammazione, parti offese, membro virile. La ragazza si lagna, dicono.
Nessuno si preoccupa di me, nessuno mi accarezza. Anzi. Sapete cosa dicono? Mentre Fra Gerolamo è nelle carceri di San Leonardo, il signore che lo difende, l’avvocato, dice che la colpa è stata mia! Che io quel giorno, Fra Gerolamo, l’ho provocato e l’ho sedotto. Vi spiego. L’avvocato dice che io già nella pancia di mia mamma ho assorbito l’arte della malizia, così la chiama, perché lei aveva tanti uomini e quindi sono nata sapendo già che se mi fossi fatta godere avrei avuto in cambio cibo e denaro. E che alla mia età avevo già l’indole formata, che non c’era niente di strano nel mio comportamento anche perché era già successo che un altro ragazzo di nove anni avesse impregnato la balia. Inesigenza della pena, dice. Perché non ho pianto, perché sono tornata dalla mamma da sola, perché volevo. E che sono stata io a fermare Fra Gerolamo per strada, che mi sono offerta e gli ho chiesto in cambio le susine e un fazzoletto di seta. Che lui mi ha detto che ero troppo piccola e che io ho insistito.
Ma un giorno la mamma riceve una lettera da Fra Gerolamo, poi un’altra ancora. Vuole incontrarla in carcere, le dice di volermi sposare perché ormai ha perso l’abito e così il mio onore sarebbe stato salvo. Perché ho fatto il peccato di svergognarla, scrive proprio queste parole.
Senza sapere che quella si chiama confessione.
Non lo sapevo neanche io, ma io sono una bambina. Il giudice però sì che lo sapeva ed è così che Fra Gerolamo viene condannato a dieci anni.
Non si sa cosa ne è stato di me. Nei fascicoli non c’è scritto cosa succede dopo.
Sono diventata grande, non ho mai parlato. Sopravvissuta. Tormentata, fragile, spenta. Innocente. E questa è la mia storia. Mi chiamavo Rosa, avevo cinque anni, forse sei, ed era una mattina d’estate di duecento anni fa.
Lorena Piras
Fonte: Archivio di Stato di Sassari
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Mi sono commossa. Grazie, non so dire altro se non grazie per questa storia.
Una storia che, raccontata con l’usale perizia di Lorena, lascia il cuore sfranto.
Una storia amara come il fiele, che appare scritta per un fatto accaduto ieri, per i tanti fatti analoghi di violenza che accadono oggi.
Purtroppo ieri, come oggi, non si pensa a Rosa, si pensa al frate.
Carlo
Grazie x queste storie reali. Che, ahimè, si ripetono nel tempo. Per la cifra narrativa di Lorena.