di Maurizio Casu
Ci sono luoghi nati per sbaglio, spazi vitali perduti nel tempo. Cancellati dalla memoria e dal ricordo, bastano alcune generazioni per farli cadere nell’oblio. Luoghi che è meglio non ricordare, che non sarebbero dovuti esistere.
Il tempo brucia tutto, le ruspe abbattono la vergogna, i rulli compressori appianano la curva dei ricordi, stirano gli errori con una colata di asfalto, cuciono nuovi palazzi, nuovi ricami nel tessuto urbano.
Solo un capannone rimane in piedi, come uno squarcio nel tempo. Una delle cinque casermette che i militari abbandonarono alla fine della seconda guerra mondiale.
Un portale temporale, un edificio che prima ospitava militari, poi una scuola, un doposcuola e una parrocchia, ora occupato da una compagnia teatrale e alcune famiglie che ci vivono ormai da generazioni.
Le casermette erano cinque. Cinque capannoni, un cortile, un grande silos per raccogliere l’acqua, una fontana e un muro di mattoni di tufo a rinchiudere tutto il perimetro. La seconda guerra mondiale era finita.
Per primi arrivarono gli ex militari e s’insediarono alla buona nel punto più lontano dalla strada principale. Poi arrivarono tutti gli altri, famiglie che non potevano permettersi l’affitto ne tanto meno l’acquisto di una casa.
In poco tempo tutti i capannoni vennero occupati, frazionando gli ambienti con dei muri divisori per realizzare diversi appartamenti. Muri che arrivavano fino ad una certa altezza, lasciando un piccolo spazio aperto dal quale, rumori, odori e umori si fondevano in un unica grande casa. In un unico grande villaggio autogestito. Una “Corea”.
Un nome generico per indicare una zona affollata, periferica e disagiata. Probabilmente derivante dalla guerra in Corea di quegli anni, dove gli Italiani erano impegnati in missioni umanitarie con ospedali da campo.
La storia di Luciana
Luciana è nata qui nel 1958, o meglio in ospedale, come tiene a precisare. E’ stata battezzata con il nome di Maria Lucia, ma per tutti è Luciana, terza di cinque fratelli maschi. Ci ha vissuto fino all’età di sedici anni.
La sua casa era all’interno del capannone che confinava con il muro divisorio del Sanatorio, ospedale adiacente in cui si curava la tubercolosi. Affacciandosi al muro, si potevano scorgere quattro panchine in legno poste in cerchio, dove gli ammalati passavano i pomeriggi a chiacchierare, bere e fumare di nascosto.
Alcuni di loro, costretti per anni all’interno della struttura, barattavano pochi spiccioli con i ragazzini del rione in cambio di vino e sigarette che venivano calati furtivamente dal muro.
Nel villaggio era presente la corrente elettrica, per l’acqua invece bisognava munirsi di secchi e bidoni da riempire alla fontana. La famiglia di Luciana aveva occupato uno spazio libero, provvisoriamente, in attesa di tempi migliori.
Una tenda proteggeva i pensieri di unica figlia femmina ed un armadio divideva la cucina dalla stanza da letto dei suoi genitori e quella dei suoi fratelli. Uno spazio che ben presto divenne casa.
Durante l’infanzia usciva poco, giocava con le cugine che abitavano a pochi metri di distanza, oppure nel cortile ricavato fra il capannone e il muro, dove era nato anche un piccolo orto con un albero di pesco che la vedrà ragazzina attendere sull’altalena che il fidanzato si presenti per chiedere la sua mano.
La storia di Nicolò
Nicolò è nato in una carciofaia, secondo di sei figli, sorride mentre lo racconta, sua madre fino all’ultimo mese di gravidanza ha lavorato in un campo di carciofi, impegnata nella raccolta. Ha partorito in una casetta degli attrezzi aiutata da alcune operaie.
Nato in località Cascetta nel 1952, anche lui ha vissuto la sua infanzia e buona parte dell’adolescenza a “Serra secca”, nel rione chiamato “Corea”, nella città di Sassari.
Un micromondo isolato in cui non ci si sentiva mai soli. Una grande famiglia nata per caso e per necessità con numerosi bambini che giocavano nei cortili, sulla veranda o alla “montagna”. Una Sardegna ancora lontana dall’essere meta turistica.
La veranda era il fulcro del rione, quella del capannone principale, l’unico munito di bagni e impianto idrico, quello che ospitava la scuola, il refettorio, il C.r.e.s. (doposcuola), la chiesa e la famiglia del signor Delogu, custode del caseggiato.
Una grande scalinata la collegava al cortile. Ai piedi della scalinata, si trovava sul terreno roccioso il miglior campo possibile per giocare a “ballocci” con le biglie in vetro colorate su percorsi e buche naturali. La montagna era invece una collina sormontata da un serbatoio per acquedotto.
Il serbatoio esiste ancora, ma la montagna agli occhi di Nicolò appare molto più piccola, è forse rimpicciolita o è cresciuto lui. Da bambino sembrava enorme. Un luogo mitico in cui arrampicarsi e sognare grandi avventure, lanciare frecce con un arco rudimentale, piccole pietre con una fionda nel tentativo di colpire i nidi degli uccelli in cima alla torre e poi fermarsi a prendere fiato.
La vita a “Corea”
Numerose erano le abitazioni e le campagne oltre il muro e numerose erano le spedizioni esplorative dei ragazzi. Si cercavano pezzetti di legno per il fuoco, lumache, asparagi, nel giardino della villa di Dottor Ghio si raccoglievano le ciliegie, si andava fino al mulino, oppure verso Osilo al rio di Bunnari nella valle dei ciclamini.
Tutte le mattine dalle campagne circostanti arrivava zia Maria “la pastora” per vendere il latte appena munto, passava di casa in casa. Le visite nel rione erano poche, un medico, il prete, il barbiere e occasionalmente un fotografo, più avanti passava anche qualche ambulante con articoli di merceria.
La prima automobile che vide Nicolò era probabilmente quella del dottor Madeddu, il medico di famiglia, il medico di tutti, il medico di Serra Secca. I negozi di generi alimentari erano due. Il primo si trovava all’esterno delle mura, in via Carlo Felice, proprio di fronte all’ingresso del rione, dalla parte opposta della strada.
Il proprietario era zio Giuseppino che permetteva di aprire conti da saldare a fine mese. In seguito si trasferì all’interno di Corea, in uno spazio libero. Il secondo negozio in ordine di tempo, era quello di Tittino. Nei ricordi di Luciana ci sono i gelati Tanara e i “lastroni” di zucchero venduti da entrambe i negozi.
La televisione non era ancora molto diffusa, la famiglia di Nicolò fu una delle prime a possederla, una scatola di legno con un pulsante di accensione ed un solo canale.
La scuola rappresentava per i bambini uno dei primi contatti con il mondo esterno, quello a pochi metri, oltre il muro. Le maestre della materna Albina e Gabriella, quelle delle elementari Coratza e Arcolaci ed il maestro Achenza arrivavano ogni mattina per le lezioni.
Il pranzo veniva preparato a scuola e consumato in refettorio. Al pomeriggio le attività proseguivano con il C.r.e.s. (centro ricreativo educativo scolastico), con lo svolgimento dei compiti, ma anche giochi, canti e balli.
Luciana ricorda che a scuola erano affissi dei manifesti che ritraevano esplosioni, bambini in lacrime, figure di bombe e la frase «se trovate un oggetto simile non toccatelo! Avvisate subito i carabinieri». Dalla “montagna” vennero infatti recuperati diversi ordigni inesplosi.
Nicolò mi racconta delle Olimpiadi organizzate dal C.r.e.s. dove vinse diverse medaglie di cartone e per pochi centimetri non si qualificò al primo posto nella gara di salto in alto. Il suo avversario era il fratello di uno dei ragazzi che tenevano la corda da saltare e la corda variava in altezza in base al concorrente.
Il giorno più bello della settimana era sicuramente la domenica. Al mattino presto, con passo claudicante un uomo avanzava lungo i cortili, superava la biancheria stesa ad un filo teso fra due capannoni e andava a sedersi sui gradini della veranda. La barba lunga lo faceva apparire come un profeta.
La porta della cappella era socchiusa, segno che Don Peppino era arrivato e si preparava per l’eucarestia. Alcuni ragazzini trascinavano due bombole da gas fino ai piedi del vecchio, il quale, impugnato un bastone le percuoteva con forza annunciando l’inizio della funzione.
L’eco delle bombole, come campane primitive si spandeva nell’aria, sfiorava i panni stesi, attraversava i cortili e penetrava nelle case. Luciana indossava il vestito e le scarpe buone, da usare giusto il tempo della messa e riporre nel cassetto e nella scarpiera una volta rientrati a casa.
Nicolò ricorda soprattutto il profumo dell’arrosto. Pollo arrosto e partite al pallone che d’estate duravano ore ed ore, fino a quando la luce del sole lo permetteva. Le porte aperte, le risate ed il vociare allegro scacciavano i problemi ed i cattivi pensieri. Il tempo diventava denso e lento in un universo parallelo fatto di semplicità e solidarietà.
Nel 1967 Nicolò compiva 15 anni e già lavorava come aiutante, in attesa di poter essere assicurato. In quel periodo alla sua famiglia venne assegnata una casa popolare nel quartiere di Latte Dolce. Nonostante il trasferimento e la nuova abitazione, continuò a frequentare i vecchi amici di Corea.
Insieme
Alcuni anni più tardi si presentò a casa di Luciana accompagnato dai genitori, lei attendeva sull’altalena quando lo vide arrivare.
Anche alla famiglia di Luciana, nel 1974, fu assegnata una casa popolare nel quartiere di Santa Maria di Pisa, nato vicino a quello di Latte Dolce per sopperire al crescente bisogno di alloggi.
Corea iniziava a crollare, abbattuta dalle ruspe. Lui aveva una bella camicia, un giubbotto in pelle ed una macchina fotografica. Lei era semplicemente bellissima. Solo un capannone rimase in piedi, come uno squarcio nel tempo.
Le persone che hanno vissuto Corea, ricordano con piacere quegli anni, nonostante fossero veramente duri. Ricordano quel villaggio come una grande famiglia dove ognuno era figlio e fratello. «Non avevamo niente, eppure non ci mancava niente».
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