di Luciana Satta
Gavino Murgia, polistrumentista di fama internazionale, nuorese, un percorso in musica iniziato da adolescente, a 12 anni. Il canto a tenore e il sassofono. Due strade apparentemente diverse, lontane. Fino a quando la musica sarda, le launeddas, il canto a tenore, il sassofono e il jazz si sono incontrati. E i luoghi della civiltà nuragica sono diventati per lui un teatro perfetto: «Le sonorità che eseguo – dice – sono ancestrali, sono i suoni della nostra terra, sono i punti di partenza dell’origine dell’uomo e quando suono in luoghi del genere avverto un’energia, un senso del tempo e dello spazio particolari». Lo incontro nella sua Nuoro, dove c’è il suo studio di registrazione e dove ritorna, sempre, dopo le tournée che lo portano in giro per il mondo. Ha suonato in Giappone, nel Sud Africa, negli USA, in Pakistan, a Cuba, nello Yemen, in Russia, Francia, Germania, Portogallo, Inghilterra, Spagna, Finlandia, Norvegia, Svezia, Belgio, Polonia, Turchia, Marocco. Domani sarà di nuovo in Austria.
L’intervista
Cosa rappresenta per te la musica?
La musica mi ha salvato, mi ha dato delle regole, una sorta di ordine, di disciplina. Per me era la strada migliore, la più pulita, la più bella che potessi percorrere.
Al palazzo del Marchese, a Porto Torres, nel Museo multimediale dedicato ad Andrea Parodi, ci sono alcuni contributi video che ricordano tante vostre collaborazioni. Che ricordo hai di lui?
Avevo 14 anni, dovevo andare a Sassari per un provino con il Coro degli Angeli, a casa di Gigi Camedda. Era il 1983, ricordo ancora quando Andrea Parodi mi chiamò al telefono per propormi l’audizione. Non avevo ancora la patente, mi accompagnarono degli amici. Di Andrea ho un ottimo ricordo, è stata una delle persone più simpatiche che io abbia mai conosciuto. Nelle nostre chiacchierate aveva una grande capacità di inventare storie, progetti. Eravamo molto amici.
Come scegli le collaborazioni con gli altri musicisti? Cosa cerchi in loro?
Forte stima, amicizia, feeling e affinità musicali. Ogni anno cerco di creare un nuovo progetto, una nuova collaborazione. Ho quattro trii, tre quartetti, due quintetti. Ho un trio con Jarrod Cagwine e Luciano Biondini; il mio quartetto “Blast”, con Mauro Ottolini, Aldo Vigorito e Pietro Iodice; il quartetto “Megalitico” e un altro trio con Michel Godard e Patrice Hera e tante altre formazioni collaudate con musicisti che funzionano perfettamente insieme.
La tua voce di “bassu”, tipica del canto a tenore, ti ha poi portato verso una strada di grande sperimentazione.
Con la voce è nato tutto un po’ per caso. È successo che da ragazzino ho iniziato a cantare a tenore, quasi contemporaneamente allo studio del sassofono. All’inizio il sassofono seguiva una strada e il cantante ne seguiva un’altra, poi questi due percorsi hanno iniziato a influenzarsi a vicenda e ancora oggi si condizionano.
Poi cosa è successo?
A un certo punto quella voce che utilizzavo nella formazione di canto a tenore l’ho estrapolata, dandole un ruolo da solista, normalmente non succede.
Al canto a tenore, Patrimonio Immateriale UNESCO, hai dedicato anche un docufilm, “A tenore”. Come è nata l’idea?
Mi sono accorto da anni che non esisteva un documento filmico su quella che io considero una forma d’arte straordinaria, assoluta. Ho trovato una piccola troupe che ha voluto scommettere insieme a me per realizzare questo documentario. È un lavoro profondo, ho cercato
di intrecciare la tradizione musicale con l’antropologia, ho sviluppato un racconto sulle comunità dove questo canto vive e quindi emergono le tradizioni, l’aspetto antropologico legato alla pastorizia, il canto, la differenza tra un paese e l’altro. Un viaggio nei luoghi del canto a tenore, tra Orgosolo, Orune, Mamoiada e altri paesi del centro Sardegna. L’ho presentato in anteprima al teatro Eliseo di Nuoro e al Massimo di Cagliari. A brevissimo sarà concluso e c’è molta attesa.
Sei un polistrumentista e, oltre a suonare gli strumenti, ne hai costruiti tanti…
Sono partito dalla costruzione degli strumenti della tradizione, dunque dalle launeddas, dai flauti. Anni fa, quando ho iniziato a studiare le
launeddas e gli strumenti etnici, mi divertiva costruirli. Ho realizzato centinaia di strumenti musicali per due musei: alcuni li utilizzavo per
sperimentazioni e per ottenere determinate sonorità. Uscivo quindi dai canoni della tradizione per inventare strumenti particolari.
Come è avvenuto l’incontro con il grande maestro di launeddas Luigi Lai?
Avevo già iniziato a studiare lo strumento, avevo circa 18 anni. L’ho incontrato a qualche concerto, mi sono avvicinato. Riconoscevo che era
fantastico. È stato bellissimo, perché lui è molto generoso.
Nuoro, “l’Atene sarda”, è la patria dei grandi autori con i quali collabori. Che rapporto hai con gli scrittori?
Ho stretto collaborazioni molto interessanti e proficue con gli scrittori, ad esempio con Marcello Fois, con Michela Murgia. Mi rendo conto di come Nuoro sia davvero una capitale della cultura, un piccolo centro che ha un peso culturale così importante. Naturalmente ho anche
realizzato vari progetti legati a Grazia Deledda, a Salvatore Satta. Tra gli spettacoli in onore di Grazia Deledda, realizzati a Nuoro il giorno di
ferragosto (data di morte della scrittrice), ricordo quello legato alla sua figura, in occasione degli ottant’anni dalla sua morte, in piazza Satta. È un luogo a cui sono particolarmente legato (lì vicino c’era il laboratorio del padre Bastianu, ebanista e scrittore dialettale nuorese n.d.r.).
Abbiamo aperto lo spettacolo con una lettura dei brani della Deledda fatta da Marcello Fois e da altri nove nuoresi. Il più piccolo era un bambino di tredici anni, la più grande di ottanta. Dieci voci diverse si alternavano, una dietro l’altra. Significa che Grazia Deledda è di tutti, appartiene a tutti. Sempre a Nuoro, nella Chiesa della Solitudine, ho composto i brani per lo spettacolo “La Grazia” e accompagnato l’attore Valentino Mannias nella narrazione dei brani tratti da uno dei racconti della scrittrice inserito nell’ultima raccolta di Novelle pubblicata prima di morire, “Sole d’estate”.
Arte, musica, letteratura, si fondono in tanti tuoi progetti.
Mi è sempre piaciuto lavorare con la musica e con le altre arti, scrittura, pittura, cinema, teatro. Con Marcello Fois abbiamo realizzato
un progetto a casa di Cesare Pavese, a Santo Stefano Belbo, in Piemonte. “I dialoghi con Leucò” per il Festival «Con gli occhi di Cesare Pavese», nato dalla collaborazione tra il Circolo dei lettori e la Fondazione. Marcello Fois leggeva i testi di Pavese e io suonavo. Sono rimasti molto impressionati. Lo scorso maggio, inoltre, a Bacu Abis (Carbonia) ho collaborato con la compagnia teatrale La Cernita Teatro in “Frammenti di tempo: omaggio a Giulio Angioni e a Primo Levi”.
Cosa cerchi nel pubblico, che magia si crea con le persone che vengono ai tuoi spettacoli?
Quando sento l’attenzione con cui mi ascoltano, quando mi arriva quella forza, lì in quel momento lavoro sull’improvvisazione e il pubblico in qualche modo mi spinge a cercare sonorità nuove, all’istante. C’è una bella energia che ti arriva dal pubblico quando è concentrato ed è lì per te, è una cosa speciale. Avere un pubblico che ti ascolta è anche una grande fortuna.
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