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di Francesca Arca

Una scommessa vinta, un successo pressoché immediato di pubblico e critica. Questo è ciò che “Ovunque Proteggimi”, l’ultimo film di Bonifacio Angius, ha saputo conquistare nel corso di breve tempo sia in Italia che all’estero. Abbiamo incontrato il regista poco prima dell’uscita del film quando ancora i commenti entusiastici su questo lavoro così profondo, ancora non avevano iniziato ad inanellarsi puntuali e meritati.

Chi ha visto il tuo “Perfidia” cosa può aspettarsi da “Ovunque proteggimi”?

Siamo ripartiti da dove avevamo finito. Ci sono certo delle differenze. Quella principale riguarda probabilmente il temperamento dei personaggi protagonisti. Angelino di “Perfidia” era totalmente passivo mentre Alessandro e Francesca di “Ovunque proteggimi” sono dei personaggi impulsivi. Angelino, nonostante la propria passività, poteva anche essere molto violento mentre l’impulsività di Francesca e Alessandro non è così violenta come potrebbe sembrare. Subendo il giudizio e l’esclusione da parte degli altri, cercano di reagire ad un mondo che non dà loro retta.

C’è un tentativo di riscatto davanti all’emarginazione? E cos’è per te un “emarginato”?

Alessandro e Francesca reagiscono agli eventi, cercano un riscatto nella loro voglia di fuggire dal mondo e forse anche da loro stessi. Per ciò che riguarda il concetto di emarginazione ho riflettuto a lungo e ho pensato innanzitutto che i personaggi cosiddetti “emarginati” sono sempre stati il fulcro del cinema. Da Charlot di Chaplin fino al Freddie di The Master di Paul Thomas Anderson, si può notare come questi “emarginati” non siano poi così ai margini. Considerato quanto siano importanti per la storia della letteratura, del cinema e dell’arte in generale, probabilmente ci sarebbe da ribaltare una certa visione. I veri emarginati sono quelli che si sentono al centro del mondo. La loro convinzione di poter essere così dominanti da controllare la propria vita li porta a non conoscere la realtà. I personaggi davvero centrali sono quelli che calpestano le strade, che si muovono tra le difficoltà della vita di tutti i giorni e che affrontano la violenza che ci circonda. La mia idea è che il vero emarginato sia un “salottaro” borghese che vive un’esistenza fasulla fingendo di essere buono, a prescindere dalla propria appartenenza politica. Credo invece che coloro che fanno esperienza diretta del mondo debbano esserne il centro e non guardati come si fa con gli animali in uno zoo.

Quindi tu racconti le loro storie? Che esperienza diretta ne hai?

Io racconto. Racconto storie. Amo il cinema principalmente narrativo, così come amo la narrativa in letteratura. Mi piacciono le storie e per raccontare una storia in modo efficace ci vuole un certo grado di sincerità. Per essere sinceri bisogna parlare di ciò che si conosce. Nelle mie storie parto principalmente da me stesso, da cose che mi sono successe, da persone che ho conosciuto e dalle mie paure personali. Poi le esaspero, le porto all’estremo e costruisco i miei personaggi. In un certo senso i personaggi raccontati nelle mie storie sono dei frammenti di me, di ciò che ho visto, che ho fatto o che ho visto fare; di esperienze dirette appunto.

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Alessandro Gazale

Credi quindi che il successo del tuo cinema sia anche dovuto all’autenticità che lo spettatore percepisce guardando i tuoi film?

Spero proprio di sì. Mi auguro che valga ancora quella famosa regoletta dell’emozione concreta che si prova quando si è davanti ad una qualsiasi creazione artistica. Che non deve essere per forza essere un’opera cinematografica. Può essere un quadro, una scultura, un’opera letteraria, una partita di calcio… Fare esperienza viva delle cose: credo che sia questo che valga e poi conta anche quello che un film riesce a lasciarti. Wenders diceva che molti film iniziano proprio quando esci dalla sala.

Quando è nata l’idea di “Ovunque proteggimi”?

Il percorso è stato talmente lungo che non lo ricordo di preciso. Da molto tempo Gianni Tetti ed io avevamo in mente un’idea di sceneggiatura, che però era completamente diversa da quello che è diventato “Ovunque Proteggimi”, scritto anche insieme a Fabio Bonfanti. Mi ricordo però la prima scintilla che mi ha fatto pensare di poter raccontare questo film: il rapporto tra un uomo e la sua passione perduta. Lentamente quest’uomo cade sempre più in basso, cerca di riafferrare la sua passione ma è già troppo deteriorato per riuscirci. Poi incontra una donna, crede di esserne innamorato ma in realtà la vede come un ancora di salvezza. Il suo punto di vista è talmente cristallino, sincero e privo di pregiudizi da portarlo a diventare per lei un sorta di angelo custode. Un angelo custode ubriaco.

Hai parlato di un lungo percorso che ha portato alla realizzazione di questo film. Quanto è difficile fare cinema in Italia in questo momento storico?

Fare cinema è sempre stato difficile. È difficile oggi così come è stato difficile ieri. Il cinema è un mestiere così totalizzante da mettere a repentaglio tutta la tua vita: privata, di coppia, sociale. Perché è un lavoro che non è un lavoro. È una vocazione, quasi come essere un prete. Molto spesso le persone che ti stanno affianco non riescono giustamente a comprenderlo e questo può causare diversi disagi. Per fare cinema c’è bisogno di grandissima determinazione. Nel mio piccolo – perché non ho tanta esperienza, avendo fatto due film e mezzo – mi sento quasi in missione. Sogno ancora di fare cinema, sogno di poter fare tanti film, sogno di potermi avvicinare agli autori che ho amato moltissimo quando ero adolescente. Probabilmente questo non succederà. Vedremo come andrà…

Quali sono questi autori che amavi così tanto quando eri adolescente? E perché?

Ci sono diverse epoche che riguardano il mio rapporto col cinema. La prima è sicuramente il mio rapporto con il cinema americano e i suoi personaggi un po’ “rock”. Ciò che rimane impresso sono sempre i personaggi. Sono loro che ti fanno innamorare di un film e che ti restano dentro più della storia stessa o dell’intreccio della trama. Ma questo non lo dico solo io, lo dice Martin Scorsese! I personaggi un po’ al limite, un po’ autodistruttivi mi sono sempre piaciuti. Posso citarti Randle McMurphy di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, il Mozart di “Amadeus”, Rocky Balboa o Jake LaMotta, interpretato da De Niro in “Toro Scatenato”. Per questo motivo anche nei miei film racconto questo tipo di personaggi. Forse anch’io lo sono in qualche modo, lo vedremo col tempo.

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Antonio Angius

Sia in “Perfidia” che in “Ovunque proteggimi” racconti dunque personaggi un po’ al limite. In che modo però si discostano gli uni dagli altri?

L’impulsività di Alessandro e Francesca li porta in situazioni forse più ironiche rispetto ad Angelino. In “Ovunque proteggimi” c’è ancora più ironia cinica di quella presente in “Perfidia”. Si gioca un po’ di più con le caratteristiche classiche dei personaggi “contro le regole”, creando quei meccanismi narrativi e quei rapporti di causa-effetto che rendono il film più aperto, più avventuroso. Tutto ciò nonostante il dolore che racconta, perché rimane comunque un film drammatico.

Visto che i personaggi sono così importanti nella tua narrazione, quanto diventa difficile la scelta degli interpreti giusti?

Scegliere gli interpreti è la cosa più tremenda per un regista. È la prima capacità che devi avere. Il momento della scelta è quello cruciale in cui puoi veramente azzeccare o sbagliare un film. Sbagliando la scelta dell’interprete non si può più tornare indietro. Non credo ai registi con la bacchetta magica nella direzione degli attori. Se porti un attore ad interpretare qualcosa che è troppo lontano da se stesso come essere umano, è probabile che la sua interpretazione risulterà inefficace. Per questo motivo scelgo i miei interpreti in base al loro temperamento e in base al viso, perché un attore cinematografico lavora soprattutto quel viso. Quando trovo un viso perfetto e un temperamento invece un po’ distante, non voglio che sia l’attore a fare un passo verso di me modificandosi eccessivamente. Sono io che preferisco fare un passo verso di lui, cercando di inserire nel personaggio delle caratteristiche proprie del temperamento dell’attore. In questo processo Alessandro Gazale mi ha aiutato molto. Alessandro, nella sua vita, è molto distante dal personaggio che interpreta in “Ovunque Proteggimi”. È un signore, una persona molto educata, pacata e sobria, un uomo col quale è quasi impossibile litigare ma che paradossalmente ha la faccia da “delinquente”! Un viso perfetto e delle caratteristiche di dolcezza e ingenuità che hanno fatto in modo di donare un’umanità maggiore al suo personaggio.

Come ti poni nei confronti di critica e pubblico?

Tutti siamo pubblico, critici compresi. Il pubblico sono gli avvocati, i direttori di banca, gli idraulici, i gommisti, i giornalisti, i critici cinematografici. All’interno del pubblico, che è fatto da chiunque vada a vedere un film, ci sono persone più sensibili e meno sensibili. Quello che interessa a me è raccontare storie. Più la storia è comprensibile, più è efficace. Quando mi capita di fare l’insegnante, la prima cosa che faccio è proiettare “Il monello” di Charlie Chaplin, uno dei più grandi capolavori della storia del cinema. Se ci pensiamo si tratta di un film semplice. Eppure mi rendo conto che, ogni volta che proietto quel film, l’ottanta per cento degli studenti in aula si commuove. È quasi una medicina e questo lo rende talmente universale che gli fa superare la vera prova per qualsiasi forma di opera d’arte: il passare del tempo. Ci sono film che hanno un grosso successo nell’immediato e che già due anni dopo sembrano vecchissimi. Altri continuano a mantenere la propria forza. Chaplin, Kubrick, Milos Forman, i primi film di Fellini, hanno un senso anche ora, perché possono essere compresi da chiunque abbia voglia di comprenderli. Diffido sempre un po’ invece da quei film che nascondono le proprie lacune dietro la scusa che il pubblico non abbia abbastanza capacità per poterne percepire la grandezza. Mi sembra un’affermazione troppo semplicistica. Il pubblico siamo tutti noi e non possiamo essere tutti stupidi. Poi non si può necessariamente piacere alla totalità delle persone, ma bisogna sempre avere grande rispetto per il pubblico e per qualsiasi opinione, positiva o negativa che sia.

Abbiamo parlato di storie, di personaggi, di pubblico. E l’ambientazione che ruolo svolge?

l personaggi si muovono inizialmente in una specie di non-luogo che potrebbe essere una qualsiasi città di provincia. La Sardegna ha comunque un ruolo fondamentale. Sarebbe impensabile per me non far esprimere i personaggi dei miei film attraverso le caratteristiche di un luogo: gli accenti, i modi di fare o gli intercalari. Ci troviamo inizialmente in una Sassari quasi irriconoscibile, poi in un ospedale, ci si sposta in seguito verso Cagliari e si ritorna successivamente verso nord. Abbiamo una scena nella Basilica di Saccargia, una scena al Poetto di Quartu, un’altra al porto di Porto Torres, con gli imbarchi, le navi che vanno e che vengono, molto complessa da girare. Eppure nonostante tutti questi spostamenti non sarei d’accordo se il film venisse definito come un “road movie”.

Se dovessi allora suggerire tu una definizione giusta per “Ovunque proteggimi” cosa diresti?

Ovunque proteggimi” è un racconto di esseri umani.

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