di Francesca Arca
Sei anni di carriera, due album, palchi prestigiosi come Arezzo Wave, apprezzamento da parte del pubblico e della critica. Basterebbe solo questo per capire che i Mac and the Bee non sono qualcosa di ovvio. Ma anche solo così non si avrebbe l’esatta percezione del lavoro di questa band che, attraverso la musica, riesce ad andare anche oltre la musica stessa. “One of the Two”, il loro ultimo album, si presta ad essere letto in molti modi diversi ma ognuno di essi racconterebbe solo una differente sfumatura e intensità di un mondo multiforme e lineare nello stesso tempo. Abbiamo incontrato Antonio Maciocco e Federico Pazzona che insieme a Daniele Pala e Bruno Ponchietti rappresentano una delle migliori espressioni artistiche nate nel nostro territorio.
Partiamo dalla copertina: “io sono uno dei due”. Perché proprio quell’immagine?
Antonio: “Si tratta di un quadro di Gianni Manunta “Pastorello”. L’opera adesso è molto diversa perché noi abbiamo utilizzato una bozza. Avevo visto diversi lavori di Gianni che conosco da molto tempo e gli avevo espresso il desiderio di poter ricevere un regalo speciale. Questa sua bozza – che poi attraverso l’elaborazione grafica di Margherita Piu – è diventata la copertina di “One of the Two” piacque molto a tutti noi. L’obiettivo che ci siamo prefissi è stato quello di modificare in modo minimo il lavoro di Gianni, mantenendolo il più possibile fedele all’originale, per quanto chiaramente adattandolo alla forma grafica. Cercando di non intervenite con altre scritte che non fossero quelle pensate dall’artista, abbiamo inserito solo il nome della band e dell’album in modo poco invasivo. Era importante che niente non togliesse luce alla sua opera d’arte.
“One of the Two”. Il titolo richiama proprio una delle scritte inserite da Pastorello. In che modo la avete interpretata?
Antonio: Non so quale fosse l’intento originario di Gianni, io ho dato una mia interpretazione personale che poi ho condiviso con il gruppo. Penso che ognuno di noi abbia una sorta di lato oscuro che viene fuori in modi differenti. Nel nostro caso l’idea è stata di gestirlo in maniera creativa, utilizzando appunto tutta l’energia che arriva da questo lato più nascosto per generare elementi creativi e vitali. Rappresenta l’esigenza e l’urgenza di dover comunicare qualcosa. Da questo punto di vista suonare diventa una valvola di sfogo. È un disco al quale abbiamo lavorato moltissimo per quattro anni. Dei brani che abbiamo inserito, uno solo è nato nell’ultimo periodo mentre gli altri sono il frutto di una elaborazione infinita. Oltre che alla composizione ci siamo infatti dedicati molto al suono. Siamo riusciti a “capire” davvero i pezzi quando abbiamo iniziato a suonarli. Per quanto avessimo già in mente che tipo di struttura dare ad ogni singolo brano, è stata una continua evoluzione. È un processo tendenzialmente senza fine perché suonando riusciamo ad aggiungere, togliere o migliorare.
Federico: Per come la vedo io è stato un modo di cercarci gli uni con gli altri e sviluppare un’affinità suonando e costruendo qualcosa ex-novo. È un po’ come quando si cerca di sviluppare un linguaggio nuovo. In tutto questo tempo mi è parso che fossimo alla ricerca di una mutua sintonia tra di noi in modo finalizzata alla forma-canzone. Qualcosa che ci calzasse sopra come dei vestiti comodi. Dal punto di vista pratico iniziamo sempre con una bozza – anche dettagliata ed elaborata – che passa attraverso il vaglio di ognuna delle nostre menti, finendo col modificarsi infinite volte. È passato quasi un anno da quando abbiamo iniziato a registrare e sono sicuro che se dovessimo ricominciare adesso, con tutta probabilità ci ritroveremmo ad avere un album con un suono ancora leggermente diverso.
“La ricerca di un’affinità.” Qual è il vostro approccio al gruppo e al lavoro?
Antonio: Prendiamo tutto in maniera molto seria e molto professionale ma paradossalmente non come se fosse un lavoro. Credo che sia più una ricerca artistica, un’esigenza. Non siamo attenti alla commercializzazione. Siamo dei professionisti che non vogliono farne una “professione”. Essendo molto metodici nel lavorare, ciò che abbiamo sempre fatto in questi sei anni è stato non smettere mai di provare. La continuità è stata fondamentale anche perché ci sono dei forti rapporti amicali tra di noi che vanno avanti anche al di là del gruppo.
Federico: La differenza tra fare ciò che noi facciamo e avere un semplice hobby è che si va in sala con uno spirito differente. Noi ci cerchiamo e cerchiamo di assorbire ognuno la cifra musicale degli altri. Questo atteggiamento presuppone per forza un processo creativo che va oltre il fatto di preparare dei brani per poter fare delle serate. Il tipo di coinvolgimento è profondamente diverso.
E l’esibizione dal vivo che ruolo ha?
Antonio: Spingo sempre affinché il gruppo suoni molto dal vivo perché ho sempre pensato che oltre alla preparazione in sala sia necessario il palco. Sarà forse perché faccio anche il fonico e il tecnico audio ma ho una visione un po’ diversa da chi suona e basta. Anche se il brano non è del tutto pronto preferisco suonarlo dal vivo. Soltanto dal vivo infatti puoi capire la reazione del pubblico al suono. Mi rendo conto che forse ci vuole un po’ di incoscienza ma bisogna provare, lanciarsi e testare. Il gioco a volte consiste proprio nel riuscire a prendere e fermare quello che ricevi dal vivo: l’adrenalina, lo scambio con il pubblico, tutte cose che generano delle situazioni e sensazioni che in sala non potrebbero ricrearsi e che danno molto ai brani e anche a noi come musicisti.
Federico: Dal vivo non hai solo una risposta immediata da parte del pubblico ma cambia anche il nostro modo di sentire il brano. Lo viviamo in modo nuovo. Lo stesso modo di muoversi fisicamente sul palco è molto diverso da come si suona in sala e anche questa differenza ha un peso. Tutto assume una nuova dimensione che può arricchire e modificare il brano. Magari il pubblico non se ne accorge ma noi che suoniamo lo sentiamo subito.
Quanto è difficile per una band come la vostra trovare una collocazione all’interno di un singolo genere musicale?
Antonio: In effetti questo è un po’ un problema. In questo periodo abbiamo ricevuto molte recensioni, alcune delle quali su storiche riviste di settore, e tutti hanno incontrato proprio questa difficoltà. Da un lato è sicuramente un bene, dall’altro è un rischio. La cosa positiva è che viene fuori la nostra impronta identitaria ma in altri termini potrebbe essere difficoltoso nella percezione immediata del nostro lavoro. Dal mio punto di vista è comunque importante non avere un genere definito di riferimento. Ci sono dei macro-generi dai quali ognuno di noi proviene ma in linea di massima è giusto essere in grado di spaziare: elettronica, rock, jazz, stoner… non mi è mai piaciuto dare un etichetta definita perché può essere limitante. Quando abbiamo iniziato a comporre il primo disco ci siamo subito resi conto che stavamo spaziando e in “One of the Two” è accaduto in modo più marcato. Giochiamo con i generi ma continuando a mantenere un suono che rimane in ogni caso molto identificabile come appartenente a noi. È il nostro gioco, il nostro esperimento.
Che importanza hanno i testi in questo album?
Federico: In questo lavoro abbiamo messo insieme dei pezzi che, dal punto di vista delle liriche, sono incentrati sulle problematiche legate alla colpa e a come il senso di colpa può modificare drasticamente un rapporto. Ho scritto i testi partendo dalla prima bozza strumentale. Ho provato a rendermi conto di cosa quella musica richiamasse nella mia pancia e poi da lì provare a trasporre in versi che riuscissero a fondersi con la musica. Ho scelto di scrivere in inglese perché è una lingua estremamente sintetica e in grado di adattarsi meglio alla metrica musicale.
“One of the Two” è disponibile anche in vinile. Come mai questa scelta?
Antonio: Registrare un vinile rappresentava un po’ un nostro sogno. È stato un modo per dare al nostro lavoro una dimensione, se possibile, ancora più professionale. Bruno ha contattato Alessandro “Gengy” Di Guglielmo che si è dimostrato una persona attenta e disponibile. Abbiamo avuto modo di incontrarci nel suo studio a Milano e quando abbiamo suonato per Arezzo Wave lo abbiamo ritrovato sotto il palco. Abbiamo apprezzato molto che, pur non essendo tenuto, fosse venuto a sentirci suonare. Il disco è stato registrato nel mio studio e poi abbiamo inviato i vari pezzi ad Alessandro che ha realizzato il master del cd e del vinile. Per noi ha rappresentato l’aggiunta di un tassello importante.