di Benito Olmeo
Nata a Sassari nel 1962, dove vive e lavora. Figlia d’arte, inizia a muovere i primi passi nel mondo della fotografia nei primi anni ‘80 nello studio di famiglia, acquisendo naturalmente conoscenze e competenze. Col tempo sviluppa uno stile del tutto personale nella composizione e nel taglio delle immagini, che prediligono architetture nel paesaggio, strade di città, interni di case e teatri. Le immagini si caratterizzano per i colori brillanti e vivaci, gli spazi sono reali ma in essi c’è qualcosa di metafisico. La composizione delle immagini è talora geometrizzante, con luci “artificiali” rarefatte che riplasmano il reale. La scena è spesso deserta, raramente vi è più di una figura umana.
Attualmente la ricerca artistica si è focalizzata sulle dinamiche della società contemporanea, spesso non a favore dell’essere umano. Si avvale di differenti medium espressivi, alla fotografia affianca i video, entrambi sia analogici che digitali.
Figlia d’arte, scopri la fotografia fin da giovanissima. Inizi a muovere i primi passi in questo ambito nei primi anni ‘80 nello studio di famiglia. Ci racconti cosa ha fatto scattare in te la voglia di vivere questo mondo nel “mondo”?
Ho vissuto la fotografia sin dall’infanzia. Sono nata in una casa con la camera oscura. Alla fotografia mio padre dedicava gran parte del suo tempo libero prima che diventasse a pieno titolo negli anni ’80 il suo lavoro. Nel corso della mia vita le sensazioni nei confronti della fotografia sono state varie. Nella prima infanzia ne ho subito la fascinazione e la curiosità. Per me e mio fratello la camera oscura era un luogo off limits. Le volte che ci veniva concesso di entrare potevamo farlo a turno: se un giorno entravo io non poteva entrare mio fratello. Assistevamo con stupore alla magia dell’immagine che prendeva forma. L’odore è sicuramente una cosa che non dimenticherò mai. Intorno ai dieci anni credo invece di aver “odiato” la fotografia perché costretta (sempre a turno con mio fratello) a posare per dei ritratti per ore al buio con solo la luce di una candela, quando mio padre doveva testare una nuova macchina o obiettivo. Posso affermare di aver nutrito nei confronti della fotografia un sentimento di amore/odio. L’ho abbandonata anche per anni e poi inesorabilmente ripresa. All’ennesimo di questi miei ritorni ho fatto un esame di questo rapporto altalenante ed ho capito che io di non poterne fare a meno perché con la giusta canalizzazione alleggerisce i miei giorni. Diciamo che la mia, nei confronti della fotografia è più una resa che una “voglia di vivere questo mondo”.
Qual è la prima foto che ha suscitato in te un’emozione?
Sinceramente non ricordo, ma posso dirti che il fotografo che più mi trasporta altrove è Mario Giacomelli. Alcune sue serie mi incantano.
Cosa vuol dire immortalare per sempre un attimo che rimarrà unico e che rimarrà colmo di ricordi ed emozioni?
Non penso mai a questa cosa quando fotografo, anche se in effetti poi è così. Le fotografie in positivo o negativo possono suscitate delle emozioni. Quando questo accade è meraviglioso, vuol dire che il fotografo ha fatto un buon lavoro.
Hai un curriculum di tutto rispetto, fotografo di scena Mab Teatro, fotografo operatore video Qoelet Project, fotografo freelance. Ci racconti questi diversi mondi di vivere la fotografia?
Parto dal presupposto (almeno per me) che la fotografia è fotografia, tutta, per cui alla mia ricerca personale affianco saltuariamente lavori commerciali. Nei casi che tu hai citato il mio ruolo consisteva nel fare reportage degli eventi a fini d’archivio aziendale e per la pubblicazione sul web post evento. Per altri ho fotografato prodotti per negozi on line, e così via…
Nel tempo come è lecito aspettarsi, la tua fotografia si è evoluta, cosa significa rimanere contemporanei nella contemporaneità, riuscire a distinguersi dalla massa riuscendo a crearsi una propria attualità fotografica?
Ho 56 anni e se anche prendiamo gli anni ‘80 come inizio del mio percorso sono già 38 anni per cui un’evoluzione è fisiologica, guai se non fosse stato così… ma come ho respirato fotografia dalla nascita, la mia prima macchina fotografica è stata una Diana, avrò avuto 5/6 anni. Per tanti anni ogni tanto papà me ne portava una nuova, di diverse marche ma sempre delle compatte. La prima reflex che ho usato era quella di mia madre, una Zeiss Ikon (che ancora possiedo), a cui seguì la mia prima Nikon la F301. Per tanto tempo ho fotografato le cose che mi colpivano, dai paesaggi ai particolari di oggetti. Non avendo fatto l’Istituto d’Arte né l’Accademia sono arrivata molto tardi a capire l’importanza del progetto in fotografia. Non sono mai stata una compulsiva dello scatto e la fotografia analogica sicuramente insegna a non scattare a casaccio, ma per quanto sia possibile il mio approccio attuale è ancora più lento, riflessivo e selettivo. Sono contenta che il digitale non mi abbia snaturato. Ho avuto grosse resistenze nei confronti di questa tecnologia. Ho acquistato la prima reflex digitale nel 2009. La bellezza di poter vedere subito il risultato e l’importantissimo abbattimento dei costi mi hanno definitivamente convinta. Per quanto riguarda il distinguersi non saprei, credo che un primo passo sia non seguire le mode (a quanto pare esistono anche in fotografia!), poi con il tempo e l’esperienza si dovrebbe formare la propria personalità fotografica.
Vivere davvero la fotografia è come abitare in un mondo a sé stante. Cosa ci puoi dire in merito?
A me aiuta a dare un “volto” ai miei problemi e di conseguenza esorcizzarli. La tua ricerca fotografica si è focalizzata sulle dinamiche della società contemporanea.
Vuoi lanciare un messaggio che sia da monito per l’osservatore?
I miei lavori nella maggior parte dei casi raccontano me stessa anche se ad un primo sguardo non si direbbe, i miei stati d’animo o anche semplici opinioni riguardo un dato argomento. Il mio è dunque un punto di vista soggettivo, basato sul mio vissuto e sulle mie esperienze sia passate che attuali.
Vedendo i tuoi lavori colpisce particolarmente il progetto Babilonia. Un work in progress che, non lascia dubbi. Ce ne parli?
Babilonia è un progetto a me molto caro, la cui gestazione è durata circa un anno ma covava da prima. Poi è arrivata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso ed ha sbloccato in me qualcosa che mi ha fatto vedere con chiarezza come dovevo operare per fare arrivare il mio messaggio forte e chiaro. Babilonia è nato dalla spietatezza della nostra società e proprio come la Babilonia biblica è metafora di una società che concentra in sé ciò che si considera negativo nella natura umana.
Bolle qualcosa in pentola? Ci puoi svelare qualcosa riguardo a progetti futuri?
Non ho mai avuto un periodo prolifico come questo. Sto lavorando molto ma ciò non implica che questi progetti verranno esposti; come tu immaginerai fare una mostra è un impegno economico notevole, quindi diversi fattori dovranno collimare per rendere fruibili le mie visioni.
Lo scrittore francese Daniel Pennac ha detto: “Ho fatto delle foto. Ho fotografato invece di parlare. Ho fotografato per non dimenticare. Per non smettere di guardare”. Sei d’accordo?
È una frase molto bella; mi è capitato di regalare messaggi fotografici, a volte lo preferisco alla parola e sicuramente in quei casi fotografo affinché non si dimentichi. Questo vale anche per me stessa nei riguardi di alcune mie serie, perché il pubblico pur sapendo cosa mi ha portata in quella direzione sarà comunque portato a fermarsi all’estetica della singola immagine, mentre io ogni qual volta la avrò davanti vedrò il fattore scatenante.
Fatti un autoscatto e se puoi raccontaci chi è in realtà Lorella Comi.
Mah, ancora non lo so, ma ci sto lavorando…