“Veronica” per dirla in tardo latino-greco: VERA ICONA, VERA IMMAGINE qualcosa da dire, raccontare e rappresentare. Le parole o interpretazioni scontate non interessano e neanche l’aspetto educativo semmai sono crisi di coscienza o identità di altri. In questo contesto, tutto è concepito come esperienza viva emozionale. Qui l’esistere è un concetto antropologico dei rapporti umani, c’è libertà d’espressione ed oltre, laddove gli stereotipi non sono in linea ad un linguaggio così immediatamente accessibile, bensì molto vicini alla sua disorganizzazione, ma non lasciando decantare la notevole dolcezza,la grande umanità, tra rigore crudezza e sensualità. C’è il genio dell’artista che in funzione enfatizza l’istante, Spezza la cornice del bello per entrare nella contemporaneità dell’essere con la complicità dell’idea e del progetto. l’opera dipana attraverso la poetica del luogo d’incontro e sull’interattività degli astanti, nella zona interessata alla necessità del dialogo muto dell’apparenza. Lo spazio della fotografia è luogo che comunque raccoglie la storia, modo liberale in cui poter rendersi felici e non, un luogo aperto, in cui sussistono delle differenze, forse materiale fantastico e tragico ma anche estetico ed erotico, dove l’interesse è il corpo umano e qui l’attimo si rende assurdo presente, vera poesia per infrangere il tempo; Quasi degli archetipi, non rappresentati, ove mai narrati, un modo per segnare nella parvenza rapporti simbolici, spesso non capiti in un primo momento ma ritrovati nel loro rapporto intrinseco alla comprensione umana, ove sussiste una forte adesione all’altrove. Partendo da un punto di vista originale e trasformandolo in una opportunità creativa che guarda all’attualità e indaga in altri contesti a rompere con il passato a guardare un nuovo oriente, aperto sul mondo ed in forma dirompente quasi a trasgredire. l’immagine è un attimo inteso per godere, confondere gli schemi dell’esistere, vivere di emozioni sull’orlo del sogno. – Dario Caria –
Intervista di Benito Olmeo
Ci racconti quando e come è avvenuto il tuo primo contatto con la fotografia?
Unigenita di madre nostalgica, per sua natura non poteva non mancare un altare di ricordi per immortalane di diversi, concentrandosi particolarmente tra gli 0 e gli 8. Nella sua borsetta non mancavano mai tre cose: fazzoletti, rossetto fuxia ed una “Agfa Matic 508 Pocket”. Si cambia casa si cambiano abitudini, mamma in preda alla sua esigenza d’evasione. Durante la sua dose d’acquisto in riviste, in edicola mentre sceglieva troppo lentamente, la mia attenzione veniva sempre attirata da quelle favolose riviste pattinate per cui lavoravano favolosi fotografi di moda, e a concentrarmi sul non far cascare l’occhio sulle riviste porno sulla destra. Ma della moda non me ne poteva interessare di meno visto che mi sentivo regina di stile con un pantaloncino da ciclista anni ‘90, una maglietta nera e un paio di Nike. Il mio bisogno d’ evasione invece volava insieme a quelle immagini di pura bellezza e mi ci facevo rapire volentieri e spesso . La ricerca e lo studio dell’immagine è continuata con in liceo Artistico, mentre alle medie fotografavo con la mia prima macchina fotografica regalata per i miei 10 anni da mio padre: una “Olimpus Trip” automatica. Finalmente in terza superiore il professor Antonio Loi mi fece provare l’ebbrezza di guardare attraverso delle ottiche. Dopo anni di ignoranza fotografica impugnai una vera Reflex e il professore, con grande interesse nei miei confronti e generosità d’animo mi spiegò le basi e consigliò delle macchine e dei libri. Avevo capito che da una Fiat 127 non puoi ottenere la stessa velocità di una Ferrari.
Perché nei tuoi scatti hai scelto di fermare il tempo in bianco e nero?
Non so esattamente se sia stata io a scegliere il bianco e nero o sia lui ad aver scelto me appropriandosi del mio immaginario sin da piccola. Nelle scatole delle matite e nelle confezioni di colori ad olio gli unici che hanno visto la morte son sempre stati quei due: il bianco ed il nero. Se provavo ad usare altri colori ne sentivo già la mancanza. A pensarci bene il nero è il colore più allegro della tavolozza, l’unico che contiene tutti gli altri.
Nella tua biografia leggo che definisci i tuoi scatti “promemorie emozionali per il terrore di un domani insensibile”. Ci approfondisci questo interessante concetto?
Fino ad ora ho descritto brevemente il sentimento attraverso il quale svolgo il processo creativo. Le immagini prodotte son sempre state frutto di cicli esistenziali giunti al termine e superati, quasi una sorta di esorcizzazione di paure e tormenti, sconfitte e rivincite, storie non sempre personali ma che spesso mi hanno coinvolta sentimentalmente. L’amica vita più ci mette alla prova, più ci dà la possibilità di aggiungere mattoni di sentimento al nostro grande muro personale, nell’illusione che esso ci protegga. Per questo ho pensato di creare il mio caro diario illustrato qualora avessi aggiunto qualche mattone di troppo, in modo da ricordarmi ciò che spero di non diventare mai: una persona priva di sensibilità. La mancanza di empatia mi ha sempre spaventato quando l’ho vista nel mio prossimo. Crescendo la si comprende e per errore persino si accetta trovando spesso fantasiose risposte.
Corpi violentati dal dolore, sofferenza, diversità, sono loro che abitano i tuoi scatti (rigorosamente in un bianco e nero di forte impatto). Sembra che in un certo senso tu dia a queste persone una sorta di rivalsa, una presa di coscienza. Il grande poeta Sandro Penna sul concetto di diversità diceva:”Felice chi è diverso, essendo egli diverso, ma guai a chi è diverso, essendo egli comune”. Qual è il tuo punto di vista sulla diversità?
Mi ritrovo con la citazione da te scelta . Non amo il termine ‘’diverso’’ perché a questa parola ne associo altre come “esclusione” e “allontanamento”. Interrogandomi sulla definizione faccio una grossa fatica a venirne a capo per darle il più sincero e personale dei significati. All’origine di questa parola troviamo il termine “deviare” nel senso di ciò devia dal normale. ‘’Normale’’: parola che mi crea ansia, timore e noia. Fuggendo da lei credo di aver trovato la più cara delle ricchezze, i frammenti di vita altrui che hanno spesso generosamente arricchito la mia, con la loro incompresa e meravigliosa ‘’diversità’’. Credo che nei miei scatti dolore, sofferenza e diversità’ siano alla pari con amore, libertà e rispetto. Questo è sempre stato il sentimento che li accomuna. Non sempre, anzi quasi mai, sono riuscita a decodificare l’immagine che avevo esigenza di portare in vita. Spesso nemmeno a distanza di qualche anno. La presa di coscienza di ciò che crei non è immediata ma alla fine arriva. Le sensazioni altrui mi hanno aiutato a chiarire i miei perché. La prima persona che mi ha letta tramite immagini tanto da commuovermi, nel modo più attento, profondo e delicato è stata Sonia Borsato. I testi che hanno descritto la parte poetica del mio lavoro hanno avuto la capacità di farmi ritrovare in tanto caos, quel caos che ha generato una raccolta d’immagini che ha preso il titolo di “NARRAZIONI ANATOMICHE”, una raccolta di affetti e racconti dove a parlare sono particolari anatomici. Venne presentata nello spazio espositivo CABUSSO’ ad Alghero nel 2017, al Teatro Eliseo di Nuoro, grazie all’associazione culturale “Madriche”, per poi attraversare il Mediterraneo e fare visita alla galleria fotografica SPAZIO RAW di Milano per la tredicesima edizione del PHOTO FESTIVAL e a seguire anche allo spazio EXFE, presentata da Manuela Meloni, Alberto Masala e Matteo Pispisa, il 25 Agosto per LA GIORNATA DEL LIBRO FOTOGRAFICO a San Vito.
Nonostante la giovane età il tuo curriculum è molto prolifico. Pensi che la fotografia possa essere il tuo modo di espressione sia a livello lavorativo che di comunicazione anche in futuro?
Entrando nel campo foto/lavoro ho sempre cercato dinon mischiar troppo il pensiero soldo/produzione. Faccio
fotografia ma non mi sento fotografa, uso la macchina fotografica solo come mezzo espressivo e vorrei poterlo continuare ad usarlo nel modo più onesto possibile verso me stessa con la speranza di poterlo essere realmente. L’unica mescolanza da cui traggo beneficio economico, e non sempre, sono le vendite. Quando una persona si interessa tanto da portar a casa un pezzo di me, è una bella soddisfazione. Tendenzialmente non ho un buon rapporto con i soldi, cerco di non far scegliere troppo della mia vita a loro.
Un tuo lavoro ha colpito la mia attenzione. Il suo titolo è “Stati del 2015”: una mutazione in continua evoluzione, azzarderei una trasformazione del corpo. Mi ha ricordato un plot di un videogame dal titolo The Last Of Us dove una forma fungicida di infezione trasformava i corpi degli umani in violenti mostri.
Hai colto con estrema esattezza lo stato emotivo di quel periodo, una continua mutazione una continua evoluzione. Proprio quello che cercavo di allontanare perché ero alla ricerca di ordine calma e stabilità. E’ lo stesso periodo in cui mi stavo interessando all’estetica del brutto. Da lì è nato ‘’STATI’’.
Se dovessi descrivere il mondo in uno scatto, come lo fotograferesti?
Due corpi uniti messi di spalle, una mano presa e due sguardi destinati a non incontrarsi mai.
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