di Giovanni Fiora
Mario Sironi, nato a Sassari il 12 maggio 1885, morirà a Milano nel 1961. Suo padre Enrico, ingegnere milanese, venne a Sassari per motivi di lavoro; sua madre, Giulia Villa, era originaria di Firenze. Nel 1886 la famiglia Sironi si trasferisce a Roma. Il giovane Mario si iscrive all’Università, in d’ingegneria; ma l’abbandona nel 1903 per dedicarsi alla pittura. Comincia a studiare all’Accademia del nudo di Roma e frequenta, con Umberto Boccioni e Gino Severini, lo studio di Giacomo Balla negli anni fra il 1910 e il 1915. Nel 1903 lavora come grafico, cartellonista e illustratore.
Ama Nietzsche, Schopenhauer, Leopardi e, in campo musicale, Wagner. Nel suo primo periodo produce opere di genere divisionista. Nel 1906 soggiorna a Milano, poi, con Boccioni, si reca a Parigi dove studia la pittura francese, e dopo in Germania.Aderisce al Futurismo, con suggestive esperienze di dinamismo: scelta, questa, intesa, molto verosimilmente, come rinnovamento culturale. Poche le opere futuriste note: ricordiamo, in particolare, Composizione con elica, 1916-1918, Milano, collezione G. Mattioli. Mostra interesse per la metafisica, alla quale si accosta, con particolare riferimento alla monumentalità romana. Il 24 maggio 1915, all’entrata in guerra dell’Italia, Mario Sironi si arruola, volontario, nel “battaglione volontari ciclisti”. Successivamente entrerà nella scuola allievi ufficiali del Genio. Nel 1917 trascorre una vacanza nella villa Sarfatti, dove incide puntesecche che ritraggono Margherita e Cesare. Nel 1919 rientra a Roma, dove partecipa alla grande Esposizione Nazionale Futurista: espone prevalentemente opere sul tema della guerra.
Sempre nel 1919 sposa Matilde Fabbrini, che gli darà due figlie. Nel 1920 si stabilisce a Milano. Dopo la Prima Guerra Mondiale, le sue opere sono dominate da un linguaggio figurativo arcaicizzante e caratterizzate dalla riduzione geometrica delle forme: genere che caratterizzò il ‘900 italiano: paesaggi urbani, periferie, monumentali figure umane, come incise, scolpite quasi fossero sculture (ad esempio: Periferia con cavaliere, 1920). È in questo periodo che Sironi opera una riflessione sul tema della civiltà urbana e industriale. La sua pittura, vitale e viva, è altrettanto dura e rigida, misteriosa, malinconica, travagliata. Capace di osservare attentamente tutte le agglomerazioni umane dei giorni nostri, tutte le forme dell’industria, rilevandone contrasti e motivi di suggestione.. Nel 1922 è ormai fra i maggiori iniziatori del movimento artistico del ‘900, che esprime una “moderna classicità”. Teorizza l’esercizio dell’arte in funzione etico-civile. Poi è la pittura murale che diventa per lui un metodo antico e classico; ma anche moderno e fascista perché s’incontra per le strade, per le piazze e nei luoghi di lavoro. Tutto il gruppo del ‘900, d’altronde, credeva nei valori sociali dell’arte.
E Sironi, con la pittura murale e le grandi allegorie, con la sua arte sintetica, lirica e monumentale, intende portare il discorso sociale direttamente alle masse; avendo come scopo il recupero della tradizione artistica italiana. Nel 1930, Sironi conosce Maria Alessandra Costa (Mimi) giovanissima modella, di cui s’invaghisce: lascia la moglie e decide di andare a vivere con lei. Proseguendo la sua opera negli anni Trenta e Quaranta, Sironi definisce con sempre maggiore sicurezza un’arte che poi si affermerà, a pieno titolo, in Italia e nel mondo: la pittura murale. E nello stabilire un rapporto diretto tra architettura, pittura, scultura, creando vasti effetti scenografici, con il recupero del mosaico e dell’affresco, con uno studio interdisciplinare, con l’interrelazione tra le arti a fini scenografici, egli crea una nuova arte pubblica. In questo periodo sviluppa un grande interesse soprattutto per l’affresco, per l’arte murale, con importanti lavori di decorazione (Il lavoro nei campi e il lavoro in città, 1934); con i mosaici (La Giustizia, 1936; L’Italia, 1936); con vetrate e sculture. Importanti i bassorilievi per la triennale del 1933. È nel 1936 che realizza il mosaico per il nuovo Palazzo di Giustizia di Milano, raffigurante la Giustizia tra la Legge e la Forza. Le sue opere esprimono la corposità delle forme nel contrasto tra il chiaro e lo scuro. I paesaggi sono dominati dai cieli plumbei, spesso determinati da luce sulfurea: opere fortemente drammatiche e fortemente squadrate, anche un po’ statiche, nelle prospettive delle case caratterizzate dall’immobilità. In un articolo del 1936 Mario Sironi scrisse “sotto nembi e uragani la luce è spesso abbagliante, ed è ben lecito preferirla, nella sua aspra violenza, alla luminosità da salotto dei tempi preteriti”. Negli anni trenta Sironi diventa uno dei principali artefici delle tematiche fasciste, operando alla realizzazione di opere monumentali, celebrative del regime fascista.
Ma sempre, comunque, attento a non trascurare le varie correnti artiste dell’epoca, al contrario di altri totalitarismi come il nazismo e il comunismo dove l’arte veniva rappresentata a senso unico, al servizio della propaganda dei regimi) Il fascismo credeva nella possibilità di un’arte autonoma dalla politica. Certo, il concetto di un’arte fascista veniva propugnato, e dunque Mario Sironi fu oggetto di contestazioni (Farinacci); tuttavia, la tolleranza artistica, nel regime fascista, fu pressoché assoluta, per non bruciare la creatività agli artisti. Ciò incoraggiò un’arte vera e spontanea. Questo concetto va considerato e apprezzato per non stravolgere il senso della storia. Grandi le doti artistiche di scenografo e muralista; le opere sironiane, tra le altre cose, risultano d’intonazione cupa e tenebrosa, ed esprimono, come già detto, solidità volumetrica, grazie a valori cromatici peculiari (specialmente nell’aspetto di densità del colore), con una plasticità quasi da bassorilievo. Sironi è stato definito un pittore tragico, malinconico, è stato un pittore “dell’oscurità”, nel senso più positivo; un pittore dell’ispirazione (anche per il suo carattere e la sua parte intima) del cuore e dell’anima, celata e nascosta. Il suo temperamento lo portava a creare, sulle tele, opere determinate da malinconie oniriche, assecondando la sua naturale propensione per i soggetti drammatici. Sempre coerente con se stesso, egli aderì alla Repubblica sociale, poi riparò a Dongo e Bellagio.
Nel dopoguerra, vediamo un Mario Sironi che ritorna alla pittura iniziale, alla pittura da cavalletto, con una semplificazione strutturale e formale dei soggetti: era questo, infatti, il genere che aveva caratterizzato il suo iniziale impegno artistico. Un pittore geniale e originale, che ha lasciato una grande impronta nella storia dell’arte del ‘900. Nel corso della sua carriera espose anche all’estero, riportando grandi successi: a Losanna, a Madrid, a Buenos Aires. Nel maggio del 1961 gli venne conferito il premio Città di Milano. Tante mostre gli sono state dedicate ovunque: a Sassari, nel 1974, presso il Padiglione dell’Artigianato Sardo, vi fu una sua importante esposizione. Nel 1981, poi, il Comune di Sassari gli dedicò una mostra, dal 13 agosto al 12 settembre, a Palazzo Ducale; e, sempre a Sassari, il 13 agosto, alle 12,30, venne scoperta una lapide commemorativa sulla sua casa natale (in Via Roma 31), e fu presentata una monografia. Mario Sironi fu un artista sassarese d’ingegno singolarmente vivace; sua nota peculiare fu l’attenzione all’aspetto sociale; espresse apertamente il suo pensiero con sentimento profondo; fu tra gli artisti, che per primi, infusero uno spirito nuovo nell’arte italiana.
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