In un mondo come quello odierno, terra di confine tra un passato che si sgretola velocemente e un futuro incerto e poco comprensibile, la spiritualità diventa un argomento con cui fare i conti in modo autentico e privo di sovrastrutture. Abbiamo incontrato Don Michele Murgia, giovane parroco della chiesa turritana di Cristo Risorto. Figura vitale e molto presente nella sua comunità, Don Michele ha saputo coinvolgere gli animi delle persone in una ricerca spirituale calata nel tempo presente, attraverso la sua pragmatica ironia, la sua concretezza e il profondo credo, che hanno fatto di lui “un prete modello base e un uomo felice”, come ama definirsi.
Cosa vuol dire “prete modello base”?
Credo che significhi andare all’essenza del mio ministero: prendere la mia vita, unita a quella di Gesù Cristo, e metterla al servizio di chi mi sta intorno.
Che differenza c’è tra essere prete come tu lo intendi e “il prete” così come molti lo immaginano?
Se parliamo del modello culturale – per intenderci quello che passa nei film o in tv o nella letteratura – credo che la differenza risieda nella mia mancanza di filtri. Io non intendo la mia vita come un “ruolo” o un “servizio part-time” ma sono convinto che tutto ciò che sono faccia parte della missione che tento di realizzare. Per me non ci sono impegni che possono essere considerati diversi da ciò che faccio dall’altare alla sagrestia. Faccio tutto in maniera integrata. Ciò che passa forse nella cultura contemporanea è che il prete sia qualcuno che abbia una vita sdoppiata: una funzione pubblica e delle zone di privacy in cui questo ufficio non si manifesta. Spero invece che ciò che si percepisce di me sia l’esatto opposto, perché tutto ciò che faccio e che sono fa parte di un’unica missione. “Prete modello base” è solo una parte della definizione che vorrei rappresentasse una sorta di mio testamento quando non ci sarò più. L’altra metà è “uomo felice”. Sono convinto – e penso di non essere lontano dalla verità – che essere cristiani, credenti
e portatori di quella parola buona di duemila anni fa, significhi necessariamente essere anche felici. Il cristianesimo che non è felice – anche nella miseria umana e nei piccoli e grandi drammi che contraddistinguono le nostre vite – non può essere tollerabile nel 2017. Dopo tanti secoli di riflessione, meditazione e buoni esempi, il cristianesimo non può identificarsi nel conformismo, nella rassegnazione o in una struttura estrinseca rispetto a ciò che dovrebbe essere un cristiano vero.
Quindi non c’è uno stacco tra “Michele Murgia” e“Don Michele Murgia”?
No, non c’è uno stacco dal punto di vista delle attività, del pensiero e del carattere. C’è un’integrazione semmai che mi porta, come sacerdote, a sublimare certi aspetti della mia personalità e del mio essere che normalmente sono concessi a tutti i “comuni mortali” mentre un prete, in quanto uomo di Spirito ed esponente di un certo tipo di saggezza, dovrebbe limare. E quindi da questo punto di vista che Don Michele è prete anche per Michele.
Questo tuo atteggiamento così aperto, anche nel messaggio che porti agli altri, ti ha creato dei problemi?
Come tutti anche io posso piacere o non piacere ed essere portatore di qualcosa di condivisibile oppure di problematico. E’ chiaro che non piaccio a tutti. Ci sono molte persone che, almeno secondo me, hanno un’idea preconfezionata di realtà. Questo non mi va e non posso venirci a patti. Siccome sono uno che non fa compromessi è ovvio che io non vada a genio a coloro che invece il compromesso lo amano.
Sei molto attivo sui social network e padroneggi l’utilizzo di mezzi comunicativi moderni per esprimere il tuo messaggio. Che efficacia può avere il social in questo?
Sono convinto che, come tutti gli strumenti, anche i social network abbiano aspetti di forza e di debolezza, ma questo vale per qualsiasi cosa. Sembra che io abbia fortuna nell’utilizzo di questi sistemi quindi tutto ciò che posso fare di bene, anche per il mio ministero, mi spinge ad usarli. Caratterialmente non sono per niente “social” per cui lo considero quasi una sorta di sfida nei confronti di me stesso. Imparare a saper parlare con le persone, preoccupandosi di quello che loro ascoltano, leggono e capiscono, è il 90% di quello che un prete dovrebbe essere. Da questo punto di vista considero il social una grande scuola.
Quando eri bambino pensavi di diventare un futuro sacerdote?
No, non ho mai pensato a me come prete. Non mi interessavano particolarmente né il catechismo, né le altre realtà della chiesa. Infatti quando scherzo dico sempre di essere stato un bambino “normale”: non facevo il chierichetto, a scuola non facevo l’ora di religione e non essendo uno sportivo non andavo nemmeno a giocare all’oratorio. Devo dire che però da bambino non mi sarebbe dispiaciuta l’idea di diventare Papa perché volevo diventare Imperatore (ride,n.d.r.). Siccome non mi volevo sposare, come quasi tutti i bambini, diventare re senza il matrimonio non rendeva l’idea, quindi l’unica strada possibile nel mio immaginario era quella di diventare Imperatore!
E come è accaduto che invece la tua vita ti portasse verso il sacerdozio?
Studiavo architettura a Roma, non ero affascinato da nessuna idea religiosa, anzi come molti ragazzi ero parecchio contrario all’idea del cristianesimo come scelta di vita. Stavo bilanciando una capriata di Polonceau – chi è addentro alla statica e alla scienza delle costruzioni sa di cosa sto parlando – e mentre riflettevo su quanta precisione, nel controllo dei materiali e delle strutture, ci viene richiesta in quanto tecnici, mi sono domandato: “Ma tutta questa precisione come la impariamo e come la esercitiamo invece
nei confronti delle persone?” e lì c’è stato il primo “patatrac”! Perché mi sono detto che almeno sulla carta avrei potuto fare un edificio perfetto ma chi mi incontra che tipo di precisione o di aiuto ha da me come essere umano? E’ stato l’inizio di una scintilla di sensibilità diversa nei confronti dell’uomo. Prima c’ero solo io e i miei progetti, invece da lì in poi ho iniziato ad interrogarmi sul mio ruolo all’interno della famiglia umana, facendo nascere in modo sempre più concreto l’idea di mettermi al servizio.
Che ruolo ha l’arte nella tua vita?
Credo che sia fondamentale perché tutti i primi vent’anni della mia vita li ho costruiti intorno al grande fascino per l’arte in ogni sua forma. Forse un po’ meno la musica, perché la ascolto ma non sono in grado di suonare. Non mi sono mai confrontato con la
scultura se non per pochissimi episodi ma sono ugualmente fortunato perché ho una buona mano e posso disegnare e dipingere. L’arte è il percorso spirituale più facile da iniziare, quindi grazie un po’ all’architettura, alla passione per i “pasticci” e alla grande
ammirazione che nutro per chi coltiva il proprio spirito nella ricerca della bellezza, posso dire che l’arte è stata importante. Credo che senza l’arte non sarei mai arrivato a chiedermi davanti uno specchio: “Chi sei? Cosa stai facendo?”
Quindi l‘arte ha contribuito anche all’inizio del tuo personale percorso spirituale?
Direi che non solo ha contribuito ma è stata fondamentale! Credo che sia partito tutto da lì, tanto è vero che studiavo architettura pensando che avrei realizzato edifici capaci di mettere in contatto l’uomo con il proprio spirito. Non mi interessava fare semplicemente
qualcosa di funzionale. Mi interessava l’atteggiamento spirituale delle persone che avrebbero abitato gli spazi da me pensati. Ero piuttosto “metafisico” nei miei progetti e questo incuriosiva abbastanza anche i docenti.
E ora che sei sacerdote c’è ancora spazio per l’arte nella tua vita?
Assolutamente sì. Diciamo che “gioco-forza” occupa i ritagli, un po’ come i fogli delle agendine che mi accompagnano dappertutto. Ho sempre con me una matita con una mina abbastanza dura, in genere una 2H, perché mi piace incidere la carta. Sono un appassionato del segno che resta. Tento il più possibile di disegnare e di configurare anche in maniera visibile i concetti che mi passano per la testa. Spesso ad esempio, anche per le omelie, traccio dei diagrammi di flusso con i concetti principali, per evitare di rimanere attaccato a parole troppo complesse, che servono più ad alimentare il proprio ego piuttosto che a farsi comprendere. A volte disegno delle icone per rimarcare un concetto in modo da averlo sott’occhio e poter parlare a braccio come amo fare.
Tu dai molto ai tuoi parrocchiani. Che cosa ti viene restituito in cambio?
Nel Vangelo c’è scritto che se lasci tutto per seguire il Signore riceverai trenta, sessanta o cento volte tanto fin da subito. Ed è un concetto vero e bellissimo. L’idea di essere ripagato solo in Paradiso non mi attirava molto. Collezionare “crediti” in maniera indifferenziata nel tempo presente, senza goderne nessun frutto, non è un’idea appagante. So che ho avuto moltissimo perché ho guadagnato fratelli, sorelle, mamme, babbi, e soprattutto la guida di una comunità che mi ha accolto come pretino alle prime armi e mi ha insegnato ad essere uomo e sacerdote in mezzo a loro. La metà di ciò che sono come prete lo devo alle persone che incontro.
Tu sei un giovane uomo di quarant’anni. Come ti vedi tra vent’anni?
Spero possibilmente uguale. Non credo di cambiare tanto dal punto di vista del mio carattere o delle energie che tento di mettere nel mio ministero. Mi vedo con un po’ di peli bianchi in più nella barba, visto che ho già pochi capelli. Spero vivamente che non mi
cambi lo sguardo; che non cambino i miei occhi.
A cosa non rinunceresti mai nella tua vita?
Se parliamo di cose materiali non sono uno che ha grandi pretese, a parte qualche pezzo di carta e della grafite. So invece che non sopporterei di sentirmi imbrigliato in qualche meccanismo che mi facesse sentire meno “me stesso” di quello che sono. L’uni ca cosa a cui non rinuncerei mai è leggermi sempre come persona libera.
di Francesca Arca
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