Introduzione: Francesca Arca Intervista: Benito Olmeo
Ha poco senso provare a spiegare che cosa trasformi un uomo in un artista e quali siano i confini sfumati che permettono alle due figure di amalgamarsi e fondersi. L’artista si percepisce osservando la sua opera. E’ indubbio che Ruben Mureddu sia un artista paradossale che riesce a creare atmosfere ruvide e delicate, intime e urlate, provocatorie e condivise, inquietanti e familiari. Esiste un sostantivo tedesco – “unheimliche” – usato in ambito psicanalitico, che in italiano viene tradotto con “ciò che è perturbante”, e che descrive la sensazione di timore provocata da un accadimento, una persona o una situazione che, pur essendo a noi familiare, ci è allo stesso tempo estranea. Immaginate di trovarvi nel corridoio della vostra casa, di notare un particolare che non vi appartiene e che vi fa sentire di colpo non del tutto al sicuro. Ruben Mureddu è quel particolare sconosciuto che fa la differenza tra ciò che credete di essere e ciò che siete in realtà: è perturbante. Guardando i suoi lavori non si può non ritrovare qualcosa di se stessi: a volte senza sapere cosa, in modo sottilmente sfumato; a volte riconoscendosi ma senza mai ammetterlo, in modo deciso e netto. Benito Olmeo l’ha incontrato per noi, regalandoci una lunga e interessante conversazione che offre al lettore molteplici spunti di riflessione.
Vorremmo che ci parlassi un po’ di te, perché forse è il modo più consono per raccontare la tua arte.
Sono cresciuto in un posto isolato: la Baia delle Ninfe a Capo Caccia. Nella mia vita ho viaggiato molto ma non ho più ritrovato la bellezza di quel luogo. E’un paradiso, un parco naturale patrimonio dell’Unesco. Da un certo punto di vista quindi sono un privilegiato. Ma mentre gli altri ci venivano solo in vacanza io ci vivevo e quindi rimanevo solo per lunghi periodi. Eravamo solo tre famiglie: quella dei miei genitori che fanno i ristoratori, con me e mia sorella; quella dei custodi che avevano un figlio con il quale sono cresciuto come se fossimo fratelli; quella di un altro guardiano, con due figlie che erano però molto più grandi di me. Sono cresciuto con poche persone attorno. Credo che in parte questa condizione mi abbia portato a fare il lavoro che faccio, ossia esprimermi in maniere trasversali rispetto alla canonica comunicazione, essere un artista figurativo. C’è qualcosa che stride quando vengo appellato come “pittore” perché buona parte della mia produzione artistica è nata da quando sono arte-terapeuta. La pittura viene integrata ma non è la parte unica e fondamentale. Se io lavoro col figurativo, se uso le immagini – siano esse simbolizzate, o sublimate, o ricercate in maniera letteraria in modo che il concetto sia poi trasformato in dinamica visiva – non è importante che sia pittura o meno. E’ importante che io lavori con le immagini. Da piccolo mia madre aveva notato che disegnavo molto. Mi regalò per questo un cavalletto e il necessario per dipingere. All’epoca ero un bambino piuttosto introverso. Ero socievole ma in maniera un po’ aggressiva. Se buona parte della tua vita la trascorri in un confronto con cinghiali, daini, asinelli e grifoni, è chiaro che le modalità dialogiche diventino quelle. Dovevo ancora integrare le due parti, quella animale e quella evoluta. Mi piaceva disegnare. Prestavo molta attenzione quando mio padre faceva dei lavori manuali. Mio padre ha delle belle mani, le muove bene, è un buon artigiano anche se ha dovuto smettere perché il lavoro lo ha chiamato a fare altro da presto. Ho visto però dei disegni di quando era molto giovane e aveva una bella mano. Credo che anche mia madre abbia una sua vena artistica e creativa. Probabilmente ho fatto una sorta di copia/incolla di queste due attitudini. Le cose accadono, ma come tu le prendi e le elabori non è casuale.
Quando ti racconti traspare un forte amore per ciò che fai. Cosa significa per te l’arte in senso stretto?
C’è una frase – che non è mia ma di Marina Abramovich – che pur non venendo da un mio pensiero pulito mi è rimasta molto impressa. Lei dice che l’esigenza di produrre è come quella di respirare. Voi non vi chiedete perché respirate, lo fate e basta. Se non lo faceste, finireste per morire. L’arte è un’esigenza. Quale sia il motore di quest’esigenza, se apporti un beneficio sano o se sia mossa da bisogni più complessi da analizzare, questo lo si vedrà nel mentre. E’ un fatto però che io abbia le mani nei colori fin da quando iniziai le elementari. Ho avuto in seguito delle pause, legate alla mal condotta della mia vita durante la crescita. Ogni scelta presuppone una rinuncia, più è importante la scelta che decidi di fare e più è sostanziosa la rinuncia che implica. Mi è capitato di scegliere delle cose credendo di poter continuare a fare arte, ma non ci sono riuscito e questo mi ha portato ad allontanarmi dalla produzione. Siamo umani! Ad ogni modo il discorso sull’arte e sull’artista lascia il tempo che trova, forse perché non ho abbastanza informazione e cultura per definire un artista. Cosa, infatti, definisce un artista? E’ qualcosa che sta a metà tra il business e la soggettività emotiva di ognuno di noi, perché i canali nei quali opera l’artista sono sempre canali emotivi. Se i miei lavori non passano inosservati mi sento appagato perché, avendo scelto quel metodo come modello di dialogo e di avvicinamento al mondo umano, sono primariamente un comunicatore, anche se uso un linguaggio diverso. Quando riesco a “toccare” l’altro, vuol dire che sto lavorando bene. Penso che non ci sia nulla di innato, siamo tutti vergini in origine. Il mio terrore – perché di terrore si tratta – è non arrivare all’altro. Non è tanto la paura di “non vendere” che mi spaventa, quanto l’eventuale indifferenza della gente alla quale rivolgo le mie frasi e i miei pensieri attraverso le opere. Quando si riscontra indifferenza significa che si sta sbagliando qualcosa. Se nonostante la fatica si sbaglia sempre, significa che è il caso di cambiare mestiere, oppure che si è talmente al di sopra che ancora non è arrivato il momento giusto per emergere. Ma questa è una forma esageratamente romanzesca che ricalca il mito dell’artista maledetto e incompreso. L’artista deve funzionare nel proprio tempo perché il dialogo si ha nel proprio tempo.
Che rapporto hai con le istituzioni e con il mondo artistico?
Parlerò senza filtri e in modo molto sincero. Riconosco un potere artistico immenso e unico nella “sardità” e nel popolo sardo. Tutta la storia e il contesto anche attuale dei sardi ha in sé una mole di materiale che è facilmente trasformabile in arte, oltre che nei prodotti di ordinaria funzionalità. Si dice che l’arte non sia un bene primario. E’ un grave errore. Basti pensare che l’uomo da trentamila anni a questa parte si esprime in modo artistico! L’arte è quindi un vero nutrimento per l’animo. La Sardegna ha un rapporto preferenziale con la storia e per questo ha un potenziale fortissimo. E infatti ci sono molti pittori sardi, e sassaresi in particolare, che hanno fatto scuola. Questa mia lunga premessa sembra voler portare ad una conclusione propositiva e lieta ma, per far comprendere ciò che penso davvero, ti citerò l’immagine di un mio quadro, che non ho mai finito. Rappresenta una serie di cani disposti in cerchio che, con la bava alla bocca si sbranano uno con l’altro. Al centro però non c’è assolutamente nulla da contendersi. C’è stato un periodo d’oro in passato, nel quale l’Accademia sfornava degli artisti validi e delle persone che ancora adesso hanno una produzione interessante e svolgono un lavoro di ricerca. Ma non è più come un tempo. Quando ho fatto l’Accademia abitavo già in Francia e venivo da due anni di viaggi in Asia. Ovviamente frequentavo poco. Nonostante fossi apprezzato, a volte infastidivo i docenti. Alcuni mi dicevano:“se non hai bisogno di noi vai e fai il tuo percorso artistico…” ma fortunatamente ne ho avuto altri che invece mi hanno insegnato tanto. Una di questi è l’attuale Direttrice dell’Accademia, che è anche docente di “Pedagogia e Didattica dell’Arte”. Se continuo a fare questo lavoro improntato sull’analisi della creatività vuol dire che mi ha lasciato qualcosa di buono! E’ chiaro che era un interesse che avevo anche maturato di mio, ma lei mi ha aperto diverse porte. Altre volte invece mi è andata peggio. Le dinamiche collaterali all’arte sono un problema che va oltre i confini dell’isola. In Sardegna ci sono degli studiosi che possono essere dei critici ad alto livello e ci sono artisti che hanno un “insight” e dei canali artistici alti, ma tutte queste professionalità sono difficili da incontrare. Esistono dinamiche di ostruzionismo ed emarginazione che giudico eccessive. Manca lo scambio effettivo e alla fine, a ben vedere, non si arricchisce nessuno. Non esiste nessun “Eldorado” che giustifichi questo atteggiamento. A settembre sono stato a New York da un’amica critica d’arte che mi sta accompagnando in questo lavoro di ricerca artistica. Chiunque, bravo o meno, ha bisogno del confronto con qualcuno che guardi da un altro focus. Ho passato due settimane a visitare gallerie d’arte e vedere mostre personali nelle quali ogni pezzo esposto valeva centinaia di migliaia di dollari. La mia intenzione era quella di fare due cose: la prima era guardare in faccia le persone che manipolano e spostano le opere con i soldi – volevo vedere cosa non avessi ancora capito e ho notato che sono esseri umani come gli altri; la seconda era ragionare su di me e su quello che doveva essere il mio percorso successivo, cercando di comprendere se le opere ospitate nelle grandi gallerie internazionali, (il MoMa ad esempio,) siano qualitativamente così tanto diverse e distanti da ciò che io e altri artisti, anche sardi, produciamo qui. A Natale sono stato a Berlino per la stessa ragione. Non credo che artisticamente le differenze siano sostanziali ma è certo che sono arrivato alla conclusione che la fame imbruttisce e impoverisce ed è questo che crea la vera disuguaglianza. Qui la fame impedisce di progettare su scala maggiore. Per un artista il confronto è gratificante perché fa crescere, mentre qui viene impedito perché è più opportuno fare salotto e compiacere gli altri. Non ci si rende conto che tutto questo arrivismo subitaneo impedisce però anche agli stessi addetti ai lavori di crescere ed evolversi. Accade in tutta Italia ma in Sardegna ancora di più e le istituzioni di certo non aiutano poiché non investono, rischiando, sull’arte. Le gallerie dei più grandi centri del mondo non contano più da tempo sulle istituzioni. Noi invece, così come i bambini si affidano ai genitori , ci affidiamo ancora alle istituzioni e non cresciamo più. Uno dei problemi che limitano il circuito artistico è che siamo nati in un luogo che è di per sé un’opera d’arte e quindi sviluppiamo una frenesia artistica minore rispetto ad altri paesi in cui la natura è più ostile. Siamo già appagati perché viviamo nel bello.
I tuoi lavori, anche quelli più provocatori, mostrano una grande sensibilità pittorica. Concordi?
Un tennista non sa di avere un determinato movimento di polso. Se nessuno avesse parlato o avesse fatto commenti su di me io non saprei di avere un mio taglio pittorico, dipingerei e basta. Non avrei un metro di misura. Mi hanno detto che ho un fare un po’ virtuoso quindi ci tengo alla forma. Non credo di essere uno che potrebbe mettersi a fare “arte brutta” o una pittura simile all’espressionismo statunitense, o gestuale, o con richiami al Movimento CO.BR.A. che scatena i processi delle catarsi emotive più recondite, infantili legate al gioco. Io – e forse la mia rigidità sta anche in questo – ho un mio canone estetico, un mio concetto di bellezza. E questo concetto , per quanto le mie opere possano apparire provocatorie o anche un po’ inquietanti, cerco di inserirlo sempre. Ecco perché lavoro molto sul cromatismo e sulla linee.
Appari come un uomo molto sicuro di sé ma traspare anche una sensibilità fuori dal comune. E’ forse questa sensibilità che ti ha spinto verso l’Arte-Terapia?
Questa è l’occasione per sfatare un mito. Spesso mi si dice che aiuto le persone ma in realtà credo ci siano luoghi molto più psicotici rispetto a quello in cui lavoro. Ho più paura ad andare in giro per strada che nel posto in cui faccio l’arte-terapeuta, doveeppure ci sono dei pazienti psichiatrici. Tutto nasce, secondo me, da una tappa obbligatoria. Se io non studio la teoria del colore, non posso approntare la tavolozza e mettermi a dipingere. Allo stesso modo se voglio attuare una comunicazione che abbia in sé dell’arte, devo per forza fare scuola dagli psicotici. Devo andare ad imparare da loro. Perché loro mi insegnano a destrutturarmi e a ristrutturarmi in maniera unica e originale; nella mia maniera! Loro possiedono unicità mentre noi siamo omologati. Se chiedi loro cos’è una mela, capirai che ognuna di quelle persone ha un’idea differente della “mela”. L’artista deve creare dubbi, fare in modo che chi guarda si ponga delle domande. Se disegno una mela così com’è, esattamente come tu l’hai già vista miliardi di volte, con l’immagine con cui tu la rappresenti già nel tuo inconscio, non posso suscitare in te nessuna domanda. Sono ormai sei anni che lavoro con pazienti psichiatrici e ho imparato moltissimo. La mia evoluzione personale in termini di benessere, di sicurezza nell’esprimermi e anche nell’ambito creativo, è migliorata. Siccome mi voglio bene, attraverso la mia crescita ho sublimato la mia stessa “follia” e ho deciso che la mia vita va improntata su questo. Per farlo utilizzo il mio strumento che è l’arte.
I tuoi dipinti sono molto ambigui, come se avessero una doppia anima. In che modo questo svelarsi e nascondersi ti rappresenta?
La presa di coscienza a volte ti suggerisce di nasconderti. Colui che non ha coscienza di sé, fosse egli anche la persona peggiore del mondo, non ha bisogno di nascondersi proprio perché non ha consapevolezza di essere così come è. La presa di coscienza ti consiglia che forse a volte è meglio ritirarsi, non necessariamente per sempre. Bisogna avere un certo grado di generosità per fare il lavoro che facciamo. Bisogna essere generosi perché l’artista non fa che offrirsi. Ho avuto dei periodi della mia vita in cui ho potuto elaborare tutte le mie caratteristiche interiori, vedendole in maniera più esplicita e con maggiore lucidità. Necessariamente è questo l’ argomento che io cerco di trattare. Posso partire da come funziona un accesso creativo, da qual è il bisogno che uno ha di permettere questo accesso e poi metterlo in opera, immaginandolo quasi come un’entità vivente. Un’entità che prima con timidezza si espone e poi si ritira, ha paura, non è sicura che ciò che sta portando agli occhi di tutti vada bene. Dall’altro lato, dietro tutti questi dubbi, quali sono i meccanismi che questo essere escogita per aprire dei canali di dialogo? A volte sono meccanismi manipolatori, forse ereditati da figure genitoriali, a volte altre cose. Quando si lavora con l’analisi saltano fuori dei temi e dei termini per indicare queste prassi che possono spaventare i profani. In realtà non sono altro che una forma onesta di chiamare le cose per ciò che sono. Se io dico che provo ”odio” per la donna sembra un’affermazione forte ma è ciò che provano novanta maschi su cento. E’ un “odio” che non uccide e non ha mai ucciso ovviamente, ma è legato semplicemente a degli equilibri di relazione che si hanno dalla nascita e magari affrontano il complesso edipico e che poi viene rielaborato. Ovviamente un artista cosa fa nell’immagine? Per rendere più schietto o più aleatorio un messaggio, lo esplicita di più o di meno. C’è sempre un’ambivalenza di fondo perché i nostri pensieri oscillano tra ciò che è giusto eticamente , socialmente e politicamente e ciò che non è giusto ma ci piace. Oscilliamo tutti tra normalità e perversione; è un continuo immergersi e poi risalire dalla deformità intellettuale a ciò che è socialmente accettabile.
Yves Klein diceva che i colori sono degli esseri viventi, degli individui molto evoluti che si integrano con noi e con tutto il mondo. I colori sono i veri abitanti dello spazio. E’ un’affermazione che si può ritrovare nelle tue opere?
In un’opera il colore non la fa mai da padrone ma ha comunque un potere comunicativo immenso. Comunicare un momento di raccoglimento o di apertura verso l’esterno, adattandogli un particolare cromatismo, anche quando si discosta dalla realtà, aiuta molto. Quando penso ad un’opera, la penso in termini spaziali ma anche coloristici, inevitabilmente. Altrimenti c’è il rischio di virare su un’altra arte che è quella dell’illustrazione, molto diversa dalla pittura. Io sono meno sublime e meno poetico di Klein ma mi ci ritrovo.
Con l’associazione “Respublica” sei al lavoro sulla mostra Freaks che si terrà ad Alghero a partire dal 14 Gennaio. Ce ne parli?
Premetto che quella mostra è stata proposta l’anno scorso. Non l’ho proposta io personalmente. Faccio parte del direttivo del collettivo artistico. Siamo in quattro. La propose un collega ,membro del collettivo. Non si fece subito a causa della chiusura della struttura. Quando abbiamo deciso di riaprire le porte delle attività di questo centro di associazioni, l’abbiamo riproposta. La cosa interessante è che è un argomento che non impone una deformità fisica. Si parla dell’integrazione e della mancata accettazione del diverso, in qualsiasi forma questo avvenga. E’ la paura inconscia che ha l’uomo di accettare il diverso. “Respublica” nasce dal fatto che si è rilevato che Alghero avesse bisogno non solo di un taglio artistico, ma di una serie di interventi – più o meno a lunga durata – che avessero come obiettivo quello di sensibilizzare la cittadinanza alla comprensione del beneficio che si ha nella collaborazione. Quindi ci sono all’interno tutta una serie di attività, non solo artistiche.
Chi è in realtà Ruben Mureddu?
Ruben Mureddu è un uomo che sta iniziando ad essere felice. Ho passato buona parte della vita sulle montagne russe ma ho avuto da un lato la qualità, dall’altro la fortuna – esplicitata nell’incontro con alcune persone eccezionali – per iniziare a fare una scrematura necessaria tra ciò di cui ho bisogno e ciò di cui non ho bisogno. Ho scoperto che ho bisogno di pochissime cose e pian piano le sto ottenendo.
di Benito Olmeo
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